Il Vangelo secondo Maria: la vergine femminista in rivolta contro l’angelo gabriele

«Maledetta la legge che è fatta per i maschi e Yahve che mi ha fatto femmina». Quando Maria (Benedetta Porcaroli) finisce di pronunciare la bestemmia, tuoni e fulmini spaccano il cielo. Lei casca a terra chiedendo perdono per aver scatenato la divina diffida atmosferica. Ma in quell’istante arriva il –non ancora – suo sposo, il falegname sapiente Giuseppe (Alessandro Gassman), a rassicurarla: «Non è Yahve, ma l’umidità». È punteggiato di un’ironia laconica il Vangelo secondo Maria di Paolo Zucca, tratto dall’omonimo romanzo di Barbara Alberti (ripubblicato ora da Rizzoli), nelle sale e poi in esclusiva su Sky Original e in streaming su NOW.
Il titolo è uno di quelli che mette sul piatto questioni enciclopediche – il libero arbitrio, il potere della conoscenza, il peccato originale, il dogma della verginità della Madonna – in una revisione femminista e con un controcanto inedito sui genitori terreni di Cristo. Perché se Gesù fu un rivoluzionario, non da meno doveva essere chi lo ha procreato. Infatti, Maria di Nazareth è una ribelle, che si rivolta contro il patriarcato e l’idea di poter diventare solo una sposa. Cerca un maestro, vuole imparare per viaggiare. Ma poiché nessuno vuole insegnare a leggere e scrivere a una donna, cerca di memorizzare i nomi delle città, gli avvenimenti, durante la predica al tempio.
Giuseppe tanto meno è una figura ornativa: ha visitato molti Paesi, conosce il greco, è in grado di fare molti mestieri. Il loro è un matrimonio di convenienza, ciascuno con un tornaconto innocuo: lui di avere compagnia, lei di essere istruita. Ma entrambi imparano che assieme possono isolarsi dalla brutalità e dalla grettezza. Chi li circonda infatti mira alla sopravvivenza spiccia, perché le condizioni di vita sono durissime. Primitivi sono anche i genitori di Maria, senza i mezzi materiali e morali per superare le convenzioni. Rifiutano l’idea di una figlia girovaga, che solleva la tunica per affrontare meglio la lotta con chi la provoca perché femmina. In fondo, vogliono solo rientrare negli schemi di una società di cui sono gli ultimi. Alberti, Zucca e Amedeo Pagani, che hanno scritto insieme la sceneggiatura, sono stati attenti a non dividere tra buoni e cattivi. Nella Sardegna aspra, arcaica e pastorizia, che potrebbe essere senza difficoltà la Galilea di duemila anni fa, a vincere è la coralità ispida e poetica delle donne che parlano in sardo al lavatoio, tra i pettegolezzi, le invidie e le premonizioni, o i mendicanti e gli accattoni che implorano in sardo stretto. Zucca, cagliaritano, ha fatto dell’identità regionale una cifra intelligente, in cui serpeggia sempre la comicità. Da L’arbitro (2013) con Stefano Accorsi, Geppi Cucciari e Jacopo Cullin, protagonista de L’uomo che comprò la luna (2018) in cui amplifica e prende in giro gli stereotipi sulla “sardità”. I costumi di Beatrice Giannini sono un misto tra l’immaginario di Maria Lai – veli e sottili garze mediorientali –, i vestiti di Antonio Marras –tessiture, ricami, manti di pecora –e i costumi di Piero Tosi per la Medea di Pasolini, nei copricapi ovaloidi del sacerdote per creare un senso di irraggiungibilità del messaggero di dio.
La Bibbia nel tempio è raccontata come una scena teatrale per fungere da monito e precetto per gli umili villici. Le Scritture spuntano nella frase corrucciata di un bambino di nome Giovanni: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». La durezza dei rapporti e delle situazioni sono sdrammatizzati dalle musiche di Fabio Massimo Capogrosso, secondo la lezione di Fiorenzo Carpi di prendere in contropiede il contesto, creando una dissonanza. La regia ragiona per immagini coerenti con la fotografia mai satura di Simone D’Arcangelo, in linea con la sensualità arida della terra e dell’androgina Porcaroli, bravissima rivoltosa, appesa a testa in giù sul ramo di un albero mentre mangia la “criminale” mela di Eva. Rabbiosa mentre litiga con l’angelo annunciatore Gabriele, sussiegoso, biondo iconico come nella pittura sacra. Maria si scaglia contro di lui e il disegno divino che la vuole madre incorrotta, proprio quando aveva deciso di rompere la castità, che non era stata imposta da un sacrificio, ma semplicemente dalla determinazione a non far l’amore con un vecchio. Solo che Gassman non riesce mai a essere credibile nella parte dell’anziano repulsivo…
Bella la soluzione dello Spirito Santo che ingravida Maria passandole addosso come un’ombra, per poi farla insuperbire del privilegio di portare in grembo il figlio di dio.  Allora diventa di gesso come una statua, simboleggiando una religione lontana dai credenti, usata come modo per dominare. Tutto si stempera nella prosaicità terragna, senza però eliminare la potenza del messaggio. Tuttavia, se dovessi individuare un difetto, sta nel voler prendere di petto il nodo del rapporto tra religione e femminismo, senza risolverlo. Ma quello solo il Papa…
SSSSS