Cattiverie buoniste a domicilio: se anche le oscenità diventano politically correct

Guardando questo film dai colori seppiati, che, nonostante il titolo, Cattiverie a domicilio, è adatto a una serata di sonni tranquilli, il pensiero corre a Pomodori verdi fritti alla fermata del treno. Ad accomunarli è l’atmosfera di sospetto e razzismo e la strana amicizia tra due donne apparentemente agli antipodi, una scurrile e maschiale, l’altra, delicata e riservata. Nel film di John Avnet del ’91, forse grazie ai diversi piani temporali, la grande Kathy Bates lascia respirare la recitazione delle due vere protagoniste, Mary Stuart Masterson (Idgie Threadgoode) e Mary-Louise Parker (Ruth Jamison). In Cattiverie a domicilio tra la bionda “oscena”, Rose Gooding, interpretata da Jessie Buckley, e la pia, nubile Edith Swan (Olivia Colman) non c’è partita: la grandezza di Olivia Colman si mangia non solo la sodale, ma anche una trama che avrebbe potuto essere piccante e invece si autocombustiona per inchinarsi al politically correct.
Il film di Avnet parla dell’America degli anni Venti, mentre Cattiverie è ambientato negli stessi anni, ma sulla costa meridionale inglese. In entrambe le storie, però, sul banco degli imputati è la ferocia del pregiudizio difeso da una linea femminile. In Rose, immigrata irlandese, giunta con una figlia e il compagno di colore nella casa accanto alla sua, Edith vede la fiamma della liberazione, l’insopprimibile fascino del turpiloquio che non può ripetere, ma che interiorizza. Dalla solitudine monastica della casa che condivide con gli anziani genitori, Edith sente la vita scoppiare al di là delle pareti: musica, grida, risate e sesso. Rose in Edith, invece, intravede un isolamento che cerca di sciogliere con una gentilezza rude, facendole provare piccole ebbrezze trasgressive. Ma le diverse educazioni alla fine portano a un allontanamento. È allora che arrivano terribili lettere succosamente sgrammaticate all’indirizzo della povera Edith (e di altri concittadini) che trasalisce a ogni sussurro letto ad alta voce. I sospetti ricadono su Rose e quando le missive si accumulano la decenza urge essere difesa.
Basata su una storia vera – che divenne un caso nazionale con tanto di processo –, il film è claudicante, in primo luogo, appunto, per il paragone tra Olivia Colman, capace di atteggiare credibilmente la boccuccia a qualsiasi mossa puritana, e Jessie Buckley, che in questo ruolo non si trova, nonostante le due attrici fossero state l’una lo specchio dell’altra ne La figlia oscura, di Maggie Gyllenhaal. Qui la Rose di Buckley è forzata nei suoi cappellacci calcati in testa, forse anche perché i costumi sono così curati da ricordare un Wes Anderson in versione pauperista. Inoltre il politically correct, infilato ovunque, fa risultare il tutto improbabile per l’epoca. Su tutto, la poliziotta di origini indiane (Anjana Vasan) che guida il riscatto femminista. Perfino il grandissimo Timothy Spall, padre di Edith, è leggermente macchiettistico. Poteva essere un nuovo Spiriti dell’isola e invece è solo un film piacevole.
3 stelle su 5