Spazio ad Antonioni, pittore del cinema a Ferrara

Una palazzina dedicata al regista di «Blow up» che cambiò il modo di concepire il grande schermo, privilegiando l’immagine al parlato, per raccontare la crisi della civiltà moderna. 47 mila documenti per sognare
Fin dall’“insegna” il nuovo Spazio Antonioni di Ferrara è in linea con l’etica-estetica del regista che innovò il cinema imponendo il linguaggio dell’immagine su quello narrativo. La parola Spazio, vergata in nero, dichiara che quel luogo – fatto di pannelli basculanti e volumi essenziali –, non ha vocazione museale, ma una tensione alla fluidità e alla dinamicità dei rapporti tra grande schermo e arti visive. Il nome del regista, nato a Ferrara nel 1912, è invece scritto in rosso, colore prediletto da Antonioni che lo amava nelle plastiche bruciate di Burri, ospitate nello Spazio assieme ai quadri di Morandi, e le variazioni di Rothko. È anche la tinta che prevale nel suo primo film a colori, Deserto rosso (1964), di cui vernicia muri, alberi e barili del polo industriale ravennate per denunciare la crisi della modernità, la disumanizzazione, lo scempio della Natura. Di scarlatto sono anche alcuni tubi industriali, in risalto con il cappottino verde di Monica Vitti. Lei, musa d’arte e compagna di vita di Antonioni per anni, appare tra le teche, progettate da Dominique Païni, nelle locandine e nei provini in tutta la sua tormentata bellezza.
Al piano terra dell’ex Padiglione d’Arte Contemporanea di Palazzo Massari, interamente dedicato al regista di Blow up, una serie di pannelli racconta l’artista che fu fotografo, pittore, critico cinematografico prima di essere documentarista neorealista di Gente del Po, iniziato nel ’43 e finito nel ’47, e girato a pochi chilometri dal set di Ossessione di Visconti, con cui Antonioni aveva messo a punto due progetti mai realizzati. Poi c’è N. U. – Nettezza urbana del ’48, che segue gli spazzini di Roma, città in cui si trasferisce nel 1940, e Superstizione (1949). Mentre studia economia a Bologna e gioca a tennis con Giorgio Bassani, sogna il cinema: ecco il suo casting amatoriale fatto di cartoline di divi, da Marlon Brando a Liz Taylor. Sostituito poi da quello professionale con Lucia Bosé, protagonista di una torbida passione in Cronaca di un amore del 1950, film che segnò la cesura con il mondo pauperista per un’osservazione laica della borghesia, in sintonia con la Nouvelle Vague (dipinge le angosce tonalizzando il bianco e nero della pellicola).
Fu però Il grido del ’57 a rivelare il passo del suo personalissimo modo di “indagare le anime”, amato da Coppola e Scorsese. Qui trionfa l’ingresso prepotente nelle inquadrature dell’architettura in linea con i sentimenti, dalla nebbia padana al rettifilo ferrarese; mentre la critica alla società dello spettacolo inizia nel sodalizio con Lucia Bosé ne La signora senza camelie (1953). Il tema della fragilità dei legami, invece, fa già capolino ne Le amiche (1955), tratto da Tra donne sole di Cesare Pavese. Antonioni, che corrispondeva con Calvino e Sciascia, riuscì a innovare il cinema forse proprio perché aveva un legame saldissimo con la letteratura, avendola frequentata da ragazzo assieme a Bassani e Lanfranco Caretti. Così anche nello Spazio la narrazione si permette delle libertà: accanto a sceneggiature annotate, c’è il violino e l’amatissima racchetta da tennis, uno schema di torneo e l’amarezza di aver venduto i trofei in un momento di difficoltà economica. Nell’affrontare la Trilogia della Incomunicabilità degli anni 60 – L’avventura, La notte e L’eclisse –, accanto al racconto dell’alienazione, del disagio esistenziale, della riflessione sulla solitudine dell’uomo c’è una lettera, che oggi appare un poco ridicola, in cui Alain Delon declina l’offerta per L’eclisse assieme a quella di Visconti per il Gattopardo, per interpretare Lawrence D’Arabia di David Lean. Per fortuna è andata diversamente.
Al piano superiore “Fuori fuoco”, esposizione curata da Andrea Bruciati, mette a confronto il canone naturalistico di Morandi con le fotografie sfocate di Cy Twombly. Ma si ruoterà. Di sicuro rimarranno gli ingrandimenti di particolari di acquerelli di Antonioni, che si divertiva a ripetere la lezione di Blow up – anche se nel film si metteva in risalto la fallacia dello sguardo del fotografo, accanto ai complimenti di Arnaldo Pomodoro per non aver vinto l’Oscar (ne riceverà uno alla carriera nel ’95) e gli auguri di Natale di Akira Kurosawa, che considerava Antonioni come il regista «sceso più in profondità nell’indagine dei sentimenti».
Sui pouf rossi si possono vedere gli spezzoni dei film del «pittore dello schermo», come lo definì Wim Wenders, Professione reporter e l’esplosione ripetuta di Zabriskie Point, road movie di forte critica al consumismo. Si vaga tra 47mila pezzi tra appunti, corrispondenza (da Barthes a Eco, a Tarkovskij), manifesti, fotografie, dipinti, libri, dischi, donati dalla vedova Enrica Fico, e si rimane sorpresi di come Antonioni già dagli anni 50 ci avesse avvertito della crisi ambientalista e delle insidie della civiltà delle immagini. Più che un pittore, un profeta.
Spazio Antonioni
Corso Porta Mare 5
Ferrara