Un ottimo documentario racconta un caso gigantesco di rimozione
e discriminazione: la Coppa del Mondo femminile in Messico, mai riconosciuta ufficialmente
Nell’agosto del 1971 un manipolo di calciatrici, abituate ad affrontare il campo sotto lo sguardo sarcastico e i commenti da fureria del pubblico, viene accolto all’aeroporto di Città del Messico con gli onori che si riservano alle star. Per la prima volta dotate di una divisa (tranne la Danimarca), le ragazze sono assalite da una folla adorante, dai flash e dalle richieste d’autografo: le attende lo Stadio Azteca per la Coppa (non-ufficiale) del Mondo delle Donne. Dietro le sollecitazioni degli sponsor, Inghilterra, Argentina, Messico, Francia, Danimarca e Italia radunano in fretta le migliori giocatrici sorprese da quella “regolarizzazione” informale, abituate ad allenamenti quasi carbonari, se non nascosti, e dal disdoro sociale per lo più diffuso. Per bene che andasse, quella passione veniva bollata come una bizzarria giovanile; nel peggiore dei casi, eran botte, come accadeva alla messicana Silvia Zaragoza quando veniva scoperta dal padre a giocare in strada. In ogni caso, per le squadre femminili la normalità era subire sfottò, commenti sessisti e il consueto «torna in cucina!».
A raccontarlo è Copa 71, un documentario firmato da James Erskine e Rachel Ramsay, che vede la partecipazione alla produzione di due eccezionali atlete, Serena (anche voce fuori campo) e Venus Williams, determinate a far affiorare un gigantesco caso di discriminazione sportiva e di rimozione collettiva. Distribuito da Fandango, Copa 71 è ospitato anche nella rassegna cinematografica “In campo” che coinvolge 26 città italiane per celebrare e accompagnare gli Europei che iniziano il 14 giugno. Alle interviste delle protagoniste – compassate, divertite, nostalgiche, a volte amare – si alternano flashback, spezzoni di telecronaca nello stadio stracolmo. Il vibrante e sincero entusiasmo, cui siamo abituati solo durante le partite del calcio internazionale maschile, contagia tutti. Dall’esultanza per i gol, alla trepidazione per i rigori, alla partigianeria nei casi di falli di una tifoseria a volte spietata, soprattutto per le avversarie quando gioca il Messico. E poi, la copertura dei rotocalchi, dai reportage all’aneddotica, come quando si guasta la corriera perché lo sponsor nazionale è stretto di manica, o quando la formazione argentina arriva senza le scarpe con i tacchetti, perché per quelle non c’è budget.
Copa 71 è un documento storico notevole, scritto benissimo dai due registi con Victoria Gregory, ancor meglio montato da Arturo Calvete e Mark Roberts, senza retorica e senza vittimismi. La regia è tesa a mostrare la tenacia e la capacità di far squadra di queste atlete, che per la prima volta si sentono professioniste e che per questo possono anche concedersi a morbosità glamour di cui il pubblico è ghiotto. A prescindere dal capello fluente, dalla coda d’amazzone o dal taglio corto aggressivo (soprattutto le nordiche), le giocatrici dimostrano di essere le promesse di un nuovo futuro per lo sport femminile. Altissime quelle inglesi, velocissime quelle messicane, d’acciaio le danesi, ogni formazione ha una punta di diamante. Per l’Italia è Elena Schiavo, considerata la giocatrice di calcio più forte del mondo. Di temperamento saturnino, è famosa per i litigi con gli arbitri, che spesso penalizzano l’ottima qualità del suo gioco. Tutte comunque hanno almeno un punto comune nel passato: l’ossessione di scendere in campo, unita alla convinzione di essere un caso umano isolato. Per giocare a calcio Carol Wilson si impiega nella Royal Air Force britannica, pur di non passare dal destino di moglie e madre. La francese Nicole Mangas si trasferisce dallo Champagne appositamente a Reims, dove l’Università ha creato una squadra femminile con lo scopo iniziale di far ridere gli spettatori prima della partita maschile.
Il campionato fu memorabile sotto almeno due aspetti: per le prestazioni eccezionali delle protagoniste, che spinsero al massimo il loro estro, grazie anche al gioco delle avversarie, che sentivano la responsabilità di rappresentare la propria nazione. E poi perché fu il più grande evento sportivo insabbiato: i Governi e le associazioni nazionali di calcio nel mondo fecero infatti asse per ignorarlo. Fu un atteggiamento ostativo totale, nonostante si potesse nasare la fecondità economica dell’operazione, dalla vendita dei gadget agli introiti dei biglietti che attiravano un’audience sia maschile che femminile. A questo si aggiungevano le sponsorizzazioni e i passaggi pubblicitari in telecronaca. Copa 71 fu contrastato anche con argomenti fantascientifici (il seno impediva un gioco regolare) e forse proprio perché il giro d’affari era enorme e poteva competere con il campionato maschile. La Federcalcio messicana si arrese alle insistenze della Fifa e smise di supportare la sua nazionale dopo la finale. Perfino la Danimarca, più tollerante almeno con il torneo femminile amatoriale, sciolse la sua notevolissima squadra. Tutte le “ragazze” tornarono alla vita di prima ed è commovente vedere il candore e la sorpresa che ancora si dipinge sui loro volti nel portare alla memoria quei fatti, quasi incredule che siano davvero accaduti.
Ultima nota non banale: le calciatrici non furono mai pagate. Quando, alla vigilia della finale, minacciarono di scendere in campo solo sotto contratto, vennero sottoposte a una pressione psicologica tale che cedettero. Giocarono per non far fare brutta figura ai propri Paesi e per allontanare l’ombra dell’avidità che la stampa aveva cucito loro addosso. A distanza di oltre cinquant’anni, Copa 71 forse le risarcisce, almeno moralmente.
P.s.: Per sapere chi ha vinto, basta andare al cinema.
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