Esce, vietato ai minori di 14 anni, Apache di Thierry de Peretti
Corsica feroce in salsa noir
di Cristina Battocletti
A un passo dal benessere, dalla bellezza, dalle buone frequentazioni. È solo un passo, ma irriducibile. I quattro adolescenti corsi, protagonisti di "Apache" di Thierry de Peretti, non diminuiscono mai la distanza tra loro e i turisti che invadono l’isola appena l’estate la riscalda. Figli di quella classe sociale che le vacanze non se le può permettere, Aziz (Aziz El Haddachi), Hamza (Hamza Mezziani), François-Jo (François-Joseph Cullioli) e Jo (Joseph Ebrard) rosicchiano la ricchezza altrui di nascosto.
Il film inizia proprio sull’orlo di una piscina all’aperto su cui si affaccia una villa elegante. Aziz accompagna il padre e la madre a sistemarne gli ambienti per gli ospiti continentali. Il ragazzo ha bisogno di usare il bagno, ma il padre glielo vieta. Ne nasce un alterco in francese, che finisce in arabo quando lo scontro si fa duro. Aziz, come l’amico Hamza, è un immigrato di seconda generazione, figlio di quella comunità marocchina trasferitasi in Corsica negli anni Sessanta per fare da manovalanza al vacanzificio: conclusa la missione, sa di doversi isolare nei propri quartieri e rimanere invisibile.
Dopo una serata in discoteca – stessa canzone martellante della Carrà e stesse atmosfere di "La grande Bellezza" di Sorrentino – Aziz, per fare colpo su una ragazza e sui coetanei, porta Maryne (Maryne Cayon), Hamza, François-Jo e Jo nella villa proibita per fare un bagno in piscina. Una spacconata, un gesto di ribellione contro la remissività dei genitori, contro l’impotenza di chi si autoemargina nella propria terra colonizzata da stranieri abbienti. Il tuffo però non basta, il desiderio di penetrare in un terreno inaccessibile è troppo forte e per certi versi più vicino ai teenagers «fashion victim» in "The bling ring" di Sofia Coppola, che ai ragazzi di vita in "L’odio" di Mathieu Kassovitz. I cinque usano lo stereo, si intrufolano all’interno, aprono i liquori e si ubriacano; violano i letti e le stanze, sporcano ovunque. Aziz è terrorizzato. Sa che la colpa può ricadere sulla sua famiglia, tenta di fermare gli amici fino a che la frustrazione di chi è ghettizzato esplode e invita pieno di collera a rubare gli oggetti di persone, che per loro sono «brutti, brutti, brutti», corpi estranei, da dileggiare per le abitudini sofisticate.
L’indomani il boss locale, che aveva affittato la casa ai «francesi» – così li chiamano, come se non appartenessero alla stessa nazione –, sguinzaglia due scagnozzi nel quartiere marocchino con la minaccia di far «fare un bagno di sangue agli arabi» se il colpevole del furto (uno stereo, del ciarpame e due fucili da collezione) non salta fuori. Aziz, temendo conseguenze sui genitori, senza fare nomi, promette di riconsegnare la refurtiva. Ma François-Jo – il più disinibito, spregiudicato e affascinante del gruppo, fidanzato con una «grande», hostess in un albergo, di cui "rosicchia" le stanze per farci l’amore approfittando dell’assenza dei clienti – non si fida. Aziz potrebbe tradire, bisogna dargli una lezione feroce.
"Apache" non è la trasposizione cinematografica del mito della litigiosità corsa, che trova conforto nella letteratura da Maupassant – «Per noi, quest’isola selvaggia…. è più misteriosa e più lontana dell’America. Qui l’uomo … è inconsciamente violento, astioso, sanguinario» scriveva nel 1883 l’autore di "Bel-Ami in "La vendetta" – a Mérimée, che in "Mateo Falcone" racconta un delitto d’onore di un padre contro un figlio, ambientato a Porto Vecchio, proprio come il film di de Peretti. Senza dimenticare "Asterix" in Corsica, in cui il gallo battagliero ironizza sulle interminabili e complesse faide isolane, sempre virulente anche se nessuno si ricorda più perché sono scoppiate. Piuttosto, de Peretti, al suo primo lungometraggio – ben scritto e ben girato e subito finito sotto la scure della censura italiana: è vietato ai minori di 14 anni -, è teso ad analizzare la gioventù bruciata del suo Paese natale, schiacciata dall’industria turistica e dalla speculazione edilizia. Gioventù apache – come il capo della polizia francese chiamava i fuorilegge delle banlieue di Parigi – derubata della propria terra, esiliata nelle periferie; per lo più la pellicola è ambientata nei non luoghi, per dirla alla Marc Augé, come il parcheggio di un centro commerciale, dove si può scaricare la violenza su un carrello o fare testa coda con l’auto. Il disagio dei ragazzi corsi è reso dalla penombra e dal buio in cui la macchina da presa li cattura, indugiando in lunghi piani-sequenza, dove prevalgono tonalità azzurrognole. Il sole li colpisce solo quando le loro azioni diventano irreparabili quasi a risvegliarli dalla loro leggerezza impunita. Assuefatto alla violenza imparata dai media – in una scena guarda con indifferenza il video di un omicidio diffuso in rete su un social network –, François-Jo cerca di convincere Jo, il più turbato e infantile del terzetto criminale, dell’innocenza del loro comportamento: «Siamo giovani, dobbiamo divertirci e approfittare della vita.
È quello che conta, il resto sono cazzate». Un messaggio aderente a ciò che la società esige da noi: un’esistenza in cui ogni momento è spettacolarizzato, eternamente giovane e felice. Un disorientamento globalizzato, cui de Peretti – che ha preso spunto da un fatto di cronaca accaduto a Porto Vecchio – ha agganciato la contraddizione di una generazione emarginata, che trova più facile autodistruggersi, rimanendo sottomessa alle logiche discriminatorie. Un sentimento simile a quello magistralmente intercettato a casa nostra da Alice Rohrwacher in "Corpo celeste", Salvatore Mereu in "Bellas Mariposas" e Leonardo Di Costanzo in "L'intervallo".