I primi cento anni di Boris Pahor

Oggi Boris Pahor, scrittore sloveno di cittadinanza italiana, compie cent'anni.

Ieri lo abbiamo festeggiato sulla copertina di "Domenica" del Sole 24 Ore

Buon compleanno Professore!

di Cristina Battocletti

I nazisti per contrappasso sono riusciti a creare una categoria di superuomini, che non sono certo i figli della razza ariana, ma sono le donne e gli uomini sopravvissuti ai lager. Boris Pahor è uno di loro, un triangolo rosso – così venivano marchiati i dissidenti politici, categoria di cui lo scrittore faceva parte per l’attività antinazista e antifascista svolta nella sua Trieste –, riuscito ad adattarsi a una vita normale, nonostante l’orrore dei campi di concentramento di Dachau, Markirch, Natzweiler–Struthof, Harzungen e Bergen–Belsen. Il «Professore» – è stato insegnante alle medie e alle superiori – è rimasto, all’invidiabile età di cent’anni, un infaticabile lavoratore.

Non solo per la sua attività di scrittore – è il maggiore autore sloveno, in grado di comporre con uguale abilità in italiano –, ma soprattutto di conferenziere. Zelante, instancabile, «sgajo» come si direbbe nella sua città, è capace di battere un adolescente per voglia di vivere. La stessa che lo fa sbottare in un costernato «Sto diventando vecchio», quando, dopo essersi alzato alle sei e aver lavorato tutto il giorno, per caso gli capita di non vedere un gradino ed esitare nel passo. </DC>Non smette mai di girare nelle piazze e nelle scuole, gli preme come obbligo morale verso tutte le vittime dei totalitarismi, per far conoscere la sua storia personale. Cresciuto sotto l’Impero Asburgico, Pahor ha vissuto la Prima e la Seconda guerra mondiale, è stato militare in Libia nel nostro esercito, di cui non sentiva di fare parte nonostante la cittadinanza italiana che tuttora conserva, ha fatto la Resistenza sul fronte sloveno, è stato deportato e dopo la guerra ha continuato a manifestare la sua avversione contro le dittature con la rivista «Zaliv» (Il Golfo), confezionata assieme alla moglie Radoslava Premrl, attaccando il regime di Tito.

Quando il «Professore» comincia a parlare, la platea tace attonita, seguendo l’abominio partorito dal Secolo Breve, le atrocità e le pene vissute nei lager, che l’autore ha descritto in quello che viene definito il suo capolavoro “Necropoli”, concepito in sloveno nel 1965 e pubblicato in Italia da Fazi nel 2008, grazie all’occhio attento e acuto del giornalista del «Piccolo», Alessandro Mezzena Lona. Pahor però continua a ritenere che la sua opera più riuscita sia “Una primavera difficile” (Zandonai, 2009), in cui racconta il ritorno alla vita dopo il campo di concentramento in virtù dell’amore di Arlette, infermiera nel sanatorio francese. Il «Professore» ha narrato la sua vita romanzandola in terza persona in molti dei trenta titoli, tradotti in più di dieci lingue, usciti dalla sua prolifica penna. Tra di essi ricordiamo “Il rogo nel porto” (Zandonai, 2008), “Qui è proibito parlare” (Fazi, 2009), “Piazza Oberdan” (Nuova Dimensione, 2010), “La villa sul lago” (Zandonai, 2012). Due anni fa ha scelto di scavalcare il suo alter ego e di scrivere con me la sua autobiografia, “Figlio di nessuno” (Rizzoli, 2012), grazie a un rapporto di fiducia instauratosi dopo un’intervista nel 2004. Questo libro è un’opera di pacificazione storica, figlio della sua coerenza e onestà intellettuale, che insieme alla tenacia sono le doti che più ammiro nel Professore.

Lui sloveno ha scelto un’italiana per rafforzare la fratellanza tra due popoli vicini, divisi dalla barbarie fascista. Recentemente sull’”Express” – la Francia da sempre è stata la nazione che più lo ha supportato, pubblicando per prima, insieme alla Slovenia, i suoi libri e candidandolo al Nobel – in uno degli articoli dedicati a “Quand Ulysse revient à Trieste”, pubblicato di fresco da Pierre Guillame de Roux, c’era scritto: «Davanti a questo libro bisogna mettersi sull’attenti, in silenzio». Non si poteva condensare meglio l’opera e l’autore. Auguri Professore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA