Civil War: pazza idea di far la guerra in America. Film distopico?

Civil War. Il presidente Usa infrange la Costituzione e si autorinnova il mandato: il Paese si spacca e scoppia un conflitto, visto dalla prospettiva di un manipolo di giornalisti. Un thriller che fa tremare gli States con una grande Kirsten Dunst
Durante la proiezione anticipata di Civil war di Alex Garland, uno spettatore americano ai primi colpi di fucile sparati tra le milizie delle Forze Occidentali (Texas e California) contro l’esercito del Governo Federale degli Stati Uniti, ha cominciato a urlare spaventatissimo «F**ck!», per poi dare una scarica di calci alla mia poltrona durante l’assalto alla Casa Bianca a Washington. La reazione mi è sembrata eccessiva, anche se ero indubbiamente scossa dal film. Ma poi mi sono messa nei suoi panni, pensando al Duomo di Milano bombardato, a Palazzo Chigi raso al suolo, a ipotetici combattenti che chiedono prove di “vera italianità”, come fa Jesse Plemons in Civil war, risparmiando la fossa comune ai “right kind of American”. La sceneggiatura tesissima, scritta dallo stesso Garland, entra subito a gamba tesa nel corso della guerra e inizia con il Presidente (Nick Offerman) che prepara il discorso sulla vittoria finale. Non si sa se sia democratico o repubblicano, si è auto concesso un terzo mandato, infrangendo la Costituzione e liquidando come “danni collaterali” l’uccisione di cittadini di cui era stato il rappresentante.
Garland è inglese, ma fruga nella pancia dell’America come se fosse casa propria. Ha cominciato a scrivere la storia dopo aver assistito alla carica della Guardia Nazionale contro la folla inerme durante le proteste di Black Lives Matter, mentre il Presidente Trump stringeva la Bibbia a Lafayette square. Il film non si sofferma sui motivi che hanno scatenato il conflitto. Ce l’hanno spiegato già molte pellicole come nasce una guerra civile – una su tutti, Prima della pioggia di Milčo Mančevski (1994) –, manipolando la credulità, facendo naufragare l’idea condivisa di nazione, creando falsi miti originari. Lo fece il 28 giugno 1989 il presidente serbo Slobodan Milošević commemorando la battaglia della Piana dei Merli, seicento anni (!) dopo il combattimento del 1389 tra forze cristiano serbe e truppe ottomane. Fu la prima iniezione di “purezza etnica” che portò alla famigerata guerra dei Balcani. Le atrocità, le torture, le impiccagioni che Garland mostra in Civil war ricordano molto le terribili immagini che ci arrivavano da Srebrenica, Vukovar, Sarajevo negli anni Novanta e Duemila. Ma anche le stragi e i bombardamenti odierni in Ucraina.
Civil War però non è solo un pamphlet politico: si iscrive nella migliore tradizione dei film di guerra da Apocalipse now a Zero dark thirty, unendo il cóte del thriller psicologico con quello d’azione. Sparatorie e battaglie sono rese con un tono naturalistico, tremendamente reale: i combattimenti sono stati realizzati con l’aiuto di un consulente militare, Ray Mendoza, girati con piccole camere, quasi fossero spezzoni di telegiornale. La retorica? Sì, c’è naturalmente, anche nella fotografia a volte furbetta (di Rob Hardy, Asc, Bsc), ma si inserisce nel contesto di eroismo autoironico del reporter di guerra. I protagonisti sono, infatti, un manipolo di giornalisti, che tentano di raggiungere il presidente per l’intervista finale e documentano attraverso foto e fatti l’America deserta, New York spopolata (Garland aveva ritratto già così Londra in 28 giorni dopo), con le sacche di cecità di chi finge che non stia succedendo niente. Nel film, si è detto, si prende in giro la “missionarietà” dell’inviato, ma traspare anche la devozione di Garland per questo mestiere. Il regista è figlio di un fumettista politico ed è cresciuto tra i giornalisti. Sa mostrare la smorfia bestiale dell’eccitazione di Joel (Wagner Moura) ai primi colpi di mortaio, pur sapendo che costeranno vite umane.
L’adrenalina è un diabolico veleno che contagia anche Jessie (la Cailey Spaney di Priscilla), giovanissima aspirante fotoreporter, sulle orme della più famosa fotografa di guerra Lee (Kirsten Dunst). È quest’ultima la creatura più nobile, quella che sente il peso degli orrori visti in tanti conflitti, al servizio di una causa fallita: mostrare il Male perché non si ripeta, come monito e deterrente. Sa che i suoi scatti, invece, acuiscono la fame necrofila della gente. Per questo reagisce contrita alla presenza autoimposta di Jessie in missione: dovrà insegnare un mestiere in cui non crede più. Per Lee ormai è una dipendenza, un automatismo professionale.
Grandissima interprete Dunst, la cui intelligenza e melanconia si riflettono in ogni battuta e postura. Garland crea una crasi tra la reporter usurata dalla bruttezza – che si chiama Lee in omaggio a Lee Miller, la prima fotografa entrata a Dachau –, e Jessie, arsa dal fuoco sacro per la professione – che di cognome fa Cullen, riecheggiando Don McCullin –. Eccellente scelta Dunst, ottima quella di Stephen McKinley Henderson, il Sammy di quel che resta del «New York Times», come dice Joel in una battuta che condensa la crisi di autorevolezza dei media tradizionali. Buona quella dell’acuto-sbruffone Moura, meno convincente Jessie, poco credibile nei passaggi da gatta morta a tigre dell’obiettivo. Ma a parte questo, Civil war raggiunge il suo scopo: sconvolge gli americani a pochi mesi dalle elezioni di novembre. E noi europei, che vediamo il fuoco delle guerre mangiarci il terreno attorno.
SSSSS
Cristina Battocletti