Gorizia ha tributato ad Asghar Farhadi il premio Amidei. Ecco l’intervista

L’iraniano cresciuto a pane e de sica
Inevitabilmente la prima domanda per il premio Oscar Asghar Farhadi – che ha concesso al Sole 24 Ore un’intervista in occasione del premio speciale Amidei – è quella sulla situazione dei colleghi compatrioti Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad attualmente in carcere in Iran. Il primo da lunedì scorso, dopo aver osato chiedere lumi sulla sorte degli altri due filmmaker arrestati per aver manifestato contro la violenza sui civili in Iran. Farhadi elude la domanda. Comprensibile. Diversamente sarebbe stato difficile per lui venire a ritirare il 19 luglio a Gorizia il premio in piazza Vittoria (amidei.com), nel cuore della città che si avvicina alla tappa del 2025, quando Nova Gorica e Gorizia saranno Capitale Europea della Cultura. La risposta in verità la dà con i suoi coraggiosi e intensi film contro l’ingiustizia sociale, il maschilismo, la burocrazia del suo Paese, a partire da About Elly (2009) fino a quei capolavori di Una separazione, Il cliente (Oscar nel 2012 e nel 2017) e Un eroe (2021).
Farhadi ha almeno due affinità con Amidei: entrambi sono sceneggiatori e produttori, ragione per cui il politico, sociologo e cinefilo Darko Bratina decise di intitolare il premio ad Amidei dal 1981, anno della sua scomparsa. A questo si aggiunge una nutrita ammirazione da parte di Farhadi per il Neorealismo e la Commedia all’italiana, di cui Amidei fu protagonista al fianco dei più grandi maestri, da De Sica a Rossellini, da Monicelli a Scola. «Quando ero giovanissimo sono stati i film di De Sica a formare il mio gusto artistico – spiega Farhadi -. Amo da sempre Fellini, Scola, Visconti e Pasolini. Ho rivisto molte pellicole di quel periodo d’oro della cinematografia quando lavoravo sulla post produzione di Un eroe.
In quei film i rapporti umani sono molto tangibili e portano lo spettatore a sentirsi partecipe di un’esperienza familiare. Ho continuato a seguire il cinema italiano e sono rimasto affascinato dal suo realismo, che è tuttora motivo di suggestione per i miei lavori e per quelli di molti registi iraniani».
Da Kiarostami a Panahi, da Naderi a Satrapi, da Neshat a Khosrovani esiste una nutrita corrente di cineasti iraniani che ha fatto e fa incetta di premi ai festival più blasonati. «Esiste una nouvelle vague iraniana che si è delineata ancor prima della Rivoluzione. Ci sono stati grandi registi che hanno realizzato delle opere importanti, la cui influenza si riflette ancora su molti nostri filmmaker. E, nonostante tutti i problemi e le limitazioni, le nuove generazioni di registi del mio Paese, donne e uomini, stanno facendo di tutto per trovare un proprio percorso per non assomigliare ai loro precursori. Questa varietà nei lavori dei ragazzi ha un grande valore e il mio augurio è che possano trovare sempre la strada più vicina alle loro sensibilità».
I registi-sceneggiatori come Farhadi possono avere modi opposti di rapportarsi allo scritto: alcuni lo seguono in maniera millimetrica, altri lo stravolgono. «È successo qualche volta che nel montaggio cambiassi la sequenza delle scene, ma posso dire che in generale non modifico mai la struttura della sceneggiatura e gli elementi principali della storia, perché altrimenti si verificano una serie di cambiamenti a catena. Ma sui dettagli sono sempre aperto: sul set mi sento libero di trovare ispirazione nell’ambiente o in qualcosa che mi colpisce e mi convince di più».
L’aspetto della produzione in Farhadi rimane però più tangenziale rispetto ad Amidei. «Sono stato anche produttore di alcuni film che ho realizzato in Iran, ma ho sempre preferito delegare a una squadra di professionisti per concentrarmi totalmente sul lavoro di regia. Non ho mai avuto problemi a trovare finanziamenti. Penso che il budget non sia un fattore determinante. Ho sempre cercato di fare il cinema che amo e credo che riuscirò a farlo nel futuro». L’importante per Farhadi è rimanere vicino alla platea: «Fortunatamente ho sempre avuto riscontri positivi da parte del pubblico: per me è fondamentale dialogare con la gente comune. Ho sempre cercato di non avere come interlocutore solo i critici, gli esperti o gli addetti ai lavori».
Prima del cinema, nella vita di Farhadi c’è stato il teatro, vissuto inizialmente come un inciampo – all’università di Teheran ha avuto un trasferimento forzato dalla facoltà di cinema a quella di teatro -, e divenuto poi un terreno fertilissimo: basti pensare al cechoviano e bellissimo Il passato (2013). «Studiare teatro mi ha dato l’opportunità di conoscere i più grandi sceneggiatori del mondo e questo è stato certamente fondamentale per la scrittura, per capire come creare un dramma e per approfondire un rapporto viscerale di conoscenza con il personaggio». Sui progetti futuri rimane abbottonato: «Da qualche mese sto lavorando a una nuova sceneggiatura, dovrei finirla tra poco, per poi iniziare a girare». Non c’è modo di sapere altro. Probabilmente arriverà al prossimo festival di Cannes, i cui vertici hanno lanciato un appello al regime per il rilascio immediato di Panahi, Rasoulof e Aleahmad. Per ora inascoltato.