Paweł Pawlikowski: “L’arte di scolpire i film con la luce”

Parla il premio Oscar per «Ida», che anticipa il nuovo film ambientato alle Galapagos negli anni Trenta, ancora in bianco e nero, ma a tutto schermo. Dalla sua Polonia parla dell’invasione russa a Kiev: «Un atto criminale»
Maledetto streaming. Non usa quest’aggettivo Paweł Pawlikowski, perché è polite, colto e cosmopolita. Ma con il linguaggio corporale – in una conversazione in esclusiva con il Sole 24 Ore, per paradosso in zoom -, fa intendere il suo fastidio per l’incombente monopolio delle piattaforme e il fenomeno della diserzione delle sale. Per dar man forte al grande schermo sarà presente a Roma il 30 giugno al Parco della Cervelletta per la proiezione del suo Ida, premio Oscar nel 2015 come migliore film straniero. È l’ultimo appuntamento della retrospettiva che la rassegna romana “Il Cinema in Piazza” (fino al 31 luglio) dedica al regista polacco. «Sono felice di interagire con il pubblico. È un privilegio, specialmente in Italia dove l’audience è molto viva. Un modo per combattere l’invasione degli streamers, che stanno strozzando il mercato».
Pawlikowski ha contribuito personalmente alla selezione dei film, tenendo molto ai primi documentari, From Moscow to Pietushki (1990), Dostoevsky’s Travels (1991) e Tripping with Zhirinovsky (1995). Molta Russia, forse un modo per sostenere la cultura di questo Paese, ostracizzata da alcuni in questo periodo di guerra con l’Ucraina. «Non parlo affatto di cultura russa, che non ha bisogno di essere sostenuta da me. Si tratta di documentari sulla società e nel caso di Zhirinovsky non si può dire esattamente che sia una figura illuminante da sostenere, soprattutto nelle sue pazze fantasie populiste che sono state poi realizzate da Putin».
Il regista polacco con la statuetta per "Ida"
Tra i primi lavori c’è anche Serbian Epics (1992) con le eccezionali riprese dei criminali di guerra Radovan Karadžić e Ratko Mladić. È stato così che Emmanuel Carrère, grande amico di Pawlikowski, conobbe la figura di Ėduard Limonov, sublimato dall’omonimo, magnifico libro (Adelphi, 2014). «Carrère ha catturato Limonov sotto il profilo affascinante e contraddittorio di un vero eroe di questi nostri tempi strani e folli. Ho meditato di girare un film di finzione su di lui, ma quando l’ho incontrato a Mosca di persona e mi ha esposto le sue teorie nazionaliste sulla Russia, in cui insisteva sul fatto che l’Ucraina non avesse il diritto di esistere, ho capito che non era nelle mie corde».
Dunque Limonov ha anticipato quello che poi è avvenuto: la guerra tra Russia e Ucraina: «Mi sembra di assistere a un assurdo film del secolo scorso. Molti intellettuali occidentali continuano a sostenere che la Nato abbia provocato la Russia e che lo Stato ucraino non abbia dato abbastanza autonomia alla minoranza russa nel Donbass, ma non è il momento di perdere tempo in queste mezze verità. L’unica verità che conta è che la Russia ha messo in atto un’aggressione brutale. In Polonia abbiamo immediatamente percepito le conseguenze di questo atto criminale sulla vita sconvolta di milioni di ucraini. I polacchi ultimamente non hanno goduto di una buona reputazione e quindi mi ha sorpreso ed elettrizzato vedere come abbiamo reagito generosamente, aprendo le nostre case, senza aspettare l’iniziativa del governo, che può essere anche molto antirusso, ma ideologicamente non è così lontano da quello di Putin. E proprio la solidarietà spontanea e la nostra improvvisa consapevolezza della posta in gioco e che esistono valori europei comuni, mi fa ben sperare che nelle prossime imminenti elezioni cambi qualcosa. Per fortuna siamo ancora una democrazia». Nessuna tentazione di mettere una macchina da presa sul confine tra Polonia e Ucraina? «C’è già molta gente che sta documentando l’esodo, in questi tempi in cui tutto viene filmato continuamente. È un’epoca molto diversa da quella in cui realizzavo i miei documentari. E poi sto lavorando a un nuovo film di fiction».
Difficile scucirgli qualcosa: «Sarà ancora in bianco e nero (come Ida e Cold war n.d.r.), ma stavolta a tutto schermo. È ambientato su un’isola delle Galapagos a metà degli anni Trenta». L’uscita non sarà imminente: «Per un film indipendente è difficile trovare i finanziamenti, anche dopo aver vinto l’Oscar. Hollywood ti produce se fai i film che vogliono loro. A me piace fare di testa mia». E girare senza sceneggiatura. «No, ho sempre uno script, anche se molto snello. Mi dò la possibilità di cambiarlo un poco per tenerlo vivo». Deve essere difficile conciliare allora questa libertà espressiva con l’insegnamento al corso di sceneggiatura alla scuola Wajda di Varsavia: «Gli allievi devono avere chiaro cosa vogliono dire e io cerco di risolvere i problemi di intreccio. Non ho teorie universali da dispensare». In molti lamentano che i nativi digitali abbiano con il cinema un approccio soprattutto estetico: «Non credo. Il problema della mancanza di contenuti è generale e non generazionale. C’è invece una sovraproduzione, dovuta al minor costo della tecnologia digitale. Il mio bianco e nero non si limita a togliere il colore per rendere il film più intenso e profondo. Si tratta di scolpire con la luce e le lenti per far sì che il bianco e nero sia espressivo, drammatico e colorato».