Mario Martone: traduttore di immagini onirico e politico

Mario Martone è la figura più vicina del cinema e del teatro a un traduttore. Le sue regie sono fedeli a untesto, senza scavalcarlo e senza rimanere cristallizzate a un tempo preciso: ogni storia ha un significato nella sua epoca e nel contesto attuale, come i piloni di cemento di Noi credevamo (2010) con il verbo dolentemente imperfetto dei magnifici giovani risorgimentali che cambiarono l’Italia. O come il Leopardi del Ragazzo favoloso, filosofo di attualità bruciante (vedi le Operette morali messe in scena nel 2011), o la disperazione di Goliarda Sapienza del Filo di mezzogiorno con la bravissima Donatella Finocchiaro, che rimanda alla ferocia del nostro mondo malato.
Mario Martone
Anche se è difficile dividere l’attività teatrale e operistica (con Mozart e Verdi, i più terrenamente abissali e umani) di Martone da quella cinematografica, un libro, assai ben studiato, Mario Martone. Il cinema e i film, ci prova e ci riesce. Il lavoro del regista napoletano dietro la macchina da presa è ritratto dall’interno con sguardo critico (Roberto De Gaetani, Gianfranco Capitta, Gabriele Gimmelli) e con quello di chi lavora con lui, visto che il cinema è un lavoro collettivo. La parola allora passa agli attori feticcio (e molto di più), come Toni Servillo con cui ha iniziato a fare teatro, Iaia Forte, Anna Bonaiuto, Roberto De Francesco. E la sceneggiatrice Ippolita di Majo con cui la parabola di Martone ha perfezionato l’arcata, acuendo lo slancio passionale, togliendo i rivoli e risparmiando in energia di racconto. C’è spazio per tutti i titoli, spiegati con capitoli a parte, e anche per gli “off”, come il racconto di una sincronicità junghiana di Elisabetta Sgarbi e l’impresa di sostenere e presentare i film di Gloria Zerbinati.
L’incipit è dei curatori, Pedro Armocida e Giona A. Nazzaro, che scandagliano il regista in due separate interviste. Come dice uno dei sottocapitoli del corposo volume, quello di Martone è “un cinema che nasce dal vivo”, va alle radici dell’esperienza. E su questo abbrivio Armocida nella sua introduzione, Noi e Martone, contestualizza il regista non solo rispetto all’esperienza personale della sperimentazione giovanile – la frequentazione dello Spazio Libero, luogo di avanguardia totale – , ma anche a ciò che avviene attorno a lui: l’epidemia di colera del 1973 e il terremoto dell’Irpinia del 1980. Lì, anche involontariamente, si struttura in senso “politico” l’essere artista di Martone e la nascita di Teatri Uniti (con Antonio Neiwiller e Toni Servillo), una realtà pensata per il suo Sud sofferente, dove l’arte è di scena ogni giorno per strada. Nazzaro continua in Martone e noi,spiegando «un cinema che si rivolge alla collettività, come luogo di dialogo», a partire dall’esordio Morte di un matematico napoletano (1992) grazie a cui «qualcosa cambia per sempre».
E poi c’è Napoli, ovunque (come spiegano Bruno Roberti, Bruno Di Marino, Daniele Dottorini). La città, dove Martone è nato nel 1959, come divinità: dio buono, oggetto d’amore e venerazione, e dio disperato, feroce di bruttezza (non nella povertà materiale che spesso è corretta da ricchezza culturale popolare), di degrado, di delinquenza. Il cinema di Martone è innervato da magnifici napoletani, come il matematico Renato Caccioppoli, nato dal sodalizio del regista con un altro potente personaggio partenopeo, Fabrizia Ramondino, non solo scrittrice, ma anche a suo modo “sociologa” e assistente sociale. E ancora l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io (2021), vibrante testimonianza di quello che si prova nel vivere il teatro (e de relato, l’eduardiano e intensissimo Sindaco del Rione Sanità); la comunità libertaria e utopica dello svizzero Monte Verità, trasferita nella Capri di Maksim Gor’kij in Capri-Revolution (la meno riuscita delle sue pellicole), dove Seybu, ispirato alla figura del pittore Karl Wilhelm Diefenbach di Capri Revolution, è un ecologista ante litteram, precursore del vegetarianesimo.
Il «traduttore» Mario Martone ha portato sullo schermo con amore e rispetto Elena Ferrante (L’amore molesto, 1995), Goffredo Parise (L’odore del sangue, 2004), Anna Banti (Noi credevamo, 201o), Eduardo De Filippo (Il sindaco del rione sanità, 2017), Ermanno Rea con Nostalgia (2022). Quest’ultimo è uno dei film più belli dell’anno, che ha lasciato addosso magia e sospensione, durezza e amore (il bagno del figlio alla mamma è pietà e dolcezza), una “visione” di quel sentimento contraddittorio che richiama un passato con cui si è voluto o dovuto rompere.
A volte capita che il “traduttore” tradisca, come è avvenuto nell’ultimo Rigoletto che ha infiammato la Scala, che riscatta l’ingiustizia sociale. Ma anche qui tutto era pensato e tutto era politico (ma non ideologico).
Mario Martone
Il cinema e i film
A cura di Pedro Armocida
Giona A. Nazzaro
Marsilio, pagg. 336, € 26