A dieci anni dalla scomparsa di Tonino Guerra c’è meno poesia nel nostro cinema

Tonino Guerra. Moriva dieci anni fa una delle maggiori voci
della nostra sceneggiatura che ebbe con Antonioni uno scontro
di dialoghi potentissimi e con Fellini una complementarità,
dovuta anche alle comuni radici

Tonino Gierra

Tonino Guerra


Dieci anni fa, il 21 marzo 2012, a 92 anni, scompariva Tonino Guerra e con lui la bizzaria necessaria e indomabile della poesia nel cinema italiano. L’impronta della scrittura di Guerra – soprattutto per Antonioni e Fellini, ma anche per De Santis, Petri, De Sica, Monicelli, Rosi e i fratelli Taviani -, intesa come visione fantastica e stralunata, dolorosa e sensuale, nella dimensione di goliardia e ferocia fatalista contadina, era immediatamente riconoscibile. E il suo peso specifico dipendeva da quanto larghe erano le maglie in cui lo lasciava lavorare il regista e su che fronte. La presenza di cotanto poeta nell’ideazione e realizzazione dei film permise al nostro cinema di captare e anticipare la trasformazione dell’Italia del boom economico, per una volta insieme alla letteratura, che ne prese coscienza sul «Menabò» di Vittorini e Calvino e nei romanzi di Ottieri (Tempi stretti, 1957, e Donnarumma all’assalto, 1959) e Volponi (Memoriale, 1962), fino a salire al Primo Levi de La chiave a stella (1978). Forse per le sue origini di provinciale romagnolo (era nato e cresciuto a Santarcangelo), metteva nei soggetti e nelle sceneggiature che firmava uno stupore e una fiducia illimitata nella straordinaria capacità dell’uomo di costruire ingranaggi mastodontici, enormi stabilimenti, che parevano gareggiare con la Natura. La macchina da presa di Deserto Rosso (1964) di Antonioni racconta bene l’ammirazione verso l’industria, dai tubi all’interno dello stabilimento, che era di fatto l’Eni di Ravenna, alla strumentazione dell’università di Bologna per guardare le stelle, al robottino giocattolo che andava di notte, a dispetto dei comandi.

Anche quando la Natura era abbruttita, inquinata, stuprata dall’uomo, accanto alla constatazione desolata del male del progresso, vi era la soggiogazione al genio costruttivo dell’homo faber nelle falde nere del mare e della laguna ravennate, nelle maestose fiamme gialle che uscivano dalle ciminiere e nei soffioni che si spingevano fuori dai mostri d’acciaio. Un’ammirazione che persisteva qualche anno più tardi ne Il caso Mattei (1972) di Francesco Rosi – con cui ha lavorato prima nel 1970 in Uomini contro e poi nel 1981 nei Tre fratelli – che è presunzione di una visione futuristica verso gli apparecchi, anche volanti, che Rosi inquadrava lungamente nella loro perfezione. C’era anche qui uno sguardo innamorato e forse più socialisticheggiante di liberazione del proletario dalle catene della povertà. Nella collaborazione con Rosi prevaleva però il regista-inchiestista, mentre con Antonioni tra dialoghi e immagini sembrava di assistere allo scontro tra due giganti, che non si compenetrano e si sfilacciano in rivoli quasi ostili. I capolavori nascevano dallo stridore: angosciosi, maledettamente avanti e visivamente trionfanti nella sofferenza come li voleva il regista, sottolineati da discorsi zoppi, come arcate lasciate a metà. Sono spiazzanti le parole di Monica Vitti-Giuliana in Deserto Rosso, quando sente il pavimento “precipitare”, quando sussurra «Ho male ai capelli», frase che Goffredo Fofi ha svelato essere stata presa in prestito da Amelia Rosselli. Guerra usava la poesia per far emergere la malattia nervosa, dettata dall’alienazione della società industriale, come aveva sottolineato Godard. Anticipava l’attuale nevrosi frutto della globalizzazione, della digitalizzazione, della sterilizzazione dei comparti, che ci ha portato all’infelicità purissima, già denunciata come un fiume di coscienza oltreoceano da Cassavetes nei suoi film indipendenti, come Volti (1968). Ma Vitti- Giuliana era anche l’epitome dall’incomunicabilità, materia che Guerra aveva indagato con Antonioni nella trilogia: L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962). Guerra recuperava leggerezza con Fellini per via forse della matrice territoriale comune, da cui Antonioni, ferrarese, risultava distante e costretto. Soprattutto in Amarcord (1973) Guerra si liberava dal contingente, si conchiudeva nella rotondità del fantastico, nella similitudine biografica – erano nati nello stesso anno lui e Fellini, il 1920 -, nell’antifascismo.


Con un Fellini già internazionale, ma in parabola discendente (E la nave va, 1983, Ginger e Fred, 1986), costruiva nuvole con i contorni imperfetti e imprendibili, proprio come i versi, creando l’effetto di un mazzo di fiori disordinato, armonioso se stretto nel laccio di un episodio. Con Antonioni, Guerra era molto più malinconico, pianeggiante piuttosto che roboante imbonitore romagnolo, molto più sinistro, indagatore di thriller (Blow up, 1966) con l’odore di tragedia sempre sotto i piedi. Ma con entrambi sorresse l’ostinazione, ben poco italica, a far sì che le immagini fossero regine e non al servizio della narrazione, riuscendo a non compromettere la bellezza delle parole. Furono quelli anni visionari e predittivi per il cinema, anche se sottesi da un grosso inganno: quello che gli uomini avessero vinto la Natura con le macchine. Quando invece sono state le macchine a vincere su di noi, rendendoci schiavi di una tecnologia che ci detta i tempi. Chissà che film farebbe oggi Tonino Guerra sull’ansia di oggi.