Franco Battiato: il puzzle dell’arabo mitteleuropeo

Trentacinque contributors, da Alice a Oliviero Toscani, raccontano l’artista catanese tra musica, cinema, spiritualità e viaggi

Franco Battiato durante una rispresa di Rai Cultura

Franco Battiato durante una ripresa di Rai Cultura

L’alba dentro all’imbrunire. Una storia illustrata di Franco Battiato non è una biografia, ma è la biografia più profonda di quell’“arabo mitteleuropeo” (geniale definizione di Paolo Scarnecchia) che si nutrì e ci ha nutrito per mezzo secolo di soglie: dall’elettronica ai cori russi, da Stockhausen alle scale modali o al maqam, dagli anglicismi a Un’estate al mare. Un istinto creativo fulminante, preciso, senza traccia di sussiego: «Cuccurucuccù l’ho fatta in due minuti, era la parafrasi di una canzone celeberrima… Non trovo nulla di male nel volersi divertire, anzi… Se vogliamo essere larghi, tutte le canzoni etniche hanno questa natura ludica, hanno l’obiettivo di spingere alla danza, all’aggregazione, alla festa, e lo fa ancora molta, la gran parte della musica pop». Da avanguardia di un altro sistema solare si intuì subito che quel ragazzo segaligno con la criniera africana, il naso sottile adunco, umbratile e solare, era invaso da another race of vibration e non si sarebbe fermato alla sola musica. Così col suo candore dostoevskijano ha cominciato un viaggio astrofisico, impresso nelle copertine degli LP o nelle magliette psichedeliche, verso il teatro, la pittura, il cinema, in un percorso spirituale, da Gurdjieff al Libro tibetano dei morti, il cui primo contatto non lo fece dormire per diverse notti. Con un formato sproporzionato, degno del peso specifico battiatiano, L’alba dentro all’imbrunire racconta l’artista catanese, scomparso il 18 maggio scorso, in una grande caccia al tesoro della sua molteplice personalità, con tanto di quinte apribili: un puzzle sentimentale e geografico, che disegna i margini di “Franco” – che all’anagrafe era Francesco e fu chiamato così da Gaber – attraverso trentacinque “contributors”, ovvero persone che hanno contato nella vita di Battiato. Diviso in sedici capitoli, è un volumone pieno di foto, note, inedite o dimenticate: dal ritratto con Giusto Pio al violino, quando, dopo Clic, a metà degli anni Settanta si dedicò alla musica minimale, allo scatto di Oliviero Toscani, apparso su «Uomo Vogue», in cui indossava abiti scelti dalla celebre rivista, senza rinunciare però all’inseparabile camicia con il collo alla coreana. Poi ci sono le copertine dei dischi, gli strumenti musicali, l’infinita battigia di Scalo a Grado (L’arca di Noè, 1982).


Curato dall’amicizia granitica di Francesco Messina e Stefano Senardi, con la collaborazione di Carla Bissi, Alice, che di Battiato è stata musa e voce, il libro nasce come un’operazione di grafica davvero prodigiosa, che porta la firma inconfondibile di Messina, art director e musicista, che con Franco ha collaborato (e diviso molta vita) dal ’75 e ha fondato (anche con Henri Thomasson) un’etichetta, L’Ottava, in cui si volevano pubblicare testi e dischi che non trovavano spazio altrove. All’inizio c’è un piccolo glossario per guidare alla lettura, alla visione, o all’ascolto, perché inevitabilmente attraverso questo libro si è spettatori e si canta. Le frasi di Battiato sono sottolineate, quelle dei “testimoni” riportate su due colonne, mentre il Virgilio-Messina ha una colonna larga per introdurre i capitoli. L’altro Virgilio, Stefano Senardi, – già presidente PolyGram, che strappò Battiato alla Emi, rilanciandolo con L’imboscata (1996) -, ha contribuito a raccogliere i camei che costruiscono un’immagine univoca dell’artista. Si va da Ombretta Colli che ricorda un ragazzo, dal pesante accento siculo, che la svegliò alle 8 di mattina, chiedendo, cortesissimo, di parlare con “il signor Giorgio Gaber”. E lei invece di mandarlo al diavolo, rimase stregata dal suo senso di familiarità e lo invitò a fare colazione. Di lì a poco il “battezzo” di Caterina Caselli in tivù e il successo siderale de La voce del padrone (1979), che sembrava riguardasse qualcun altro. Rimase sempre lo stesso di quando, agli albori, nel bel mezzo di un concerto, mentre la gente ballava, si interruppe e chiamò sul palco Mino Di Martino, fondatore dei Giganti, per chiedergli: «Ma tutto questo ti sembra reale?». C’è un tratto professionale ricorrente nel pittore, nel regista, nell’uomo di teatro: la serietà, l’umiltà, la concentrazione, il rispetto del lavoro degli altri, sia in sala di incisione (vedi Pino Pinaxa Pischetola), che nelle tournée. Spesso i luoghi toccati diventavano canzoni, Tozeur e i suoi treni, Parigi e il Café de la Paix, mentre il concerto a Baghdad nel 1992 con l’orchestra nazionale irachena fu un’esperienza politica di solidarietà e mistica. Come il cinema con i carrelli circolari per riportarsi all’infanzia metafisica del suo Perduto amor (2003), alla semplicità assoluta per restituire la spazialità religiosa di Attraversando il bardo (2015).

Chi scrive ha avuto la fortuna di fare un pezzetto assieme a lui per accompagnare questo documentario coraggioso, assieme al monaco cristiano Guidalberto Bormolini, che gli è stato vicino negli ultimi giorni nella sua Milo, quando stava già nuotando verso l’iperuranio. Non aveva alcuna paura di attraversare la Soglia maiuscola, semmai una curiosità infinità. Non sapremo mai come sarebbe stato il film su Händel, che teneva tanto a girare dopo il Beethoven di Musikanten. Ce l’ha fatta a incidere Torneremo ancora. E l’impressione è che non se ne sia mai andato.
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L’alba dentro l’imbrunire.
Una storia illustrata
di Franco Battiato
A cura di Francesco Messina e Stefano Senardi Rizzoli Lizard, pagg. 320, € 39