Al Trieste film festival il caso Regeni polacco

A colloquio con Jan Matuszyński: «Una storia attuale: bisogna sorvegliare la democrazia»

Che la Storia sia materia viva e che si può ripetere Leave no traces, Non lasciare tracce di Jan Matuszyński, ce lo fa capire con lunghi e ondulatori piano sequenze e una macchina da presa che tallona i giovani protagonisti, Grzegorz Przemyk (Mateusz Górski) e Jurek Popiel (Tomasz Ziętek). È il 12 maggio 1983: i ragazzi scherzano e ridono, festeggiando gli esami di maturità, appena conclusi, in un appartamento di un enorme condominio in stile sovietico a Varsavia. Si capisce che siamo negli anni Ottanta dai capelli lunghi e scarmigliati e dalle giacchine e i pantaloni stretti che ancora risentono della moda precedente. Fumano molto questi ragazzi, come gli adulti che spuntano dalle stanze affollate e discutono di politica: è la casa di Grzegorz, attivista e aspirante poeta, che ricalca le orme della madre, BarbaraSadowską (Sandra Korzeniak), poetessa cattolica, membro del “Comitato di difesa degli operai” (Kor), movimento politico e sindacale non violento, da cui nascerà Solidarność. Abituata ad essere arrestata frequentemente, Sadowską, durante gli interrogatori viene minacciata spesso dalla polizia di finire male “accidentalmente” assieme al figlio. L’ultimo “avvertimento” avviene nell’aprile 1983. Quell’“incidente” preannunciato si realizza proprio il 12 maggio, cinque giorni prima che Grzegorz compia 19 anni. Appena usciti di casa, Grzegorz e Jurek vengono fermati dalla polizia e portati in caserma. Grzegorz si rifiuta di consegnare la carta di identità: morirà due giorni dopo in conseguenza delle botte dei poliziotti.

Il 19 maggio al funerale del ragazzo, accanto alla madre Barbara, c’è il sacerdote Jerzy Popiełuszko, che verrà in seguito anch’esso sequestrato e ammazzato il 19 ottobre 1984 dalla polizia politica (e proclamato Beato nel 2010). Leave no traces sarà proiettato al Trieste Film Festival (fino al 30 gennaio), dopo essere stato in concorso alla Mostra del cinema Venezia. «Questo film parla dei nostri giorni – spiega Matuszyński via Skype -, del mio Paese e della sua deriva sovranista». La Polonia, guidata dal primo ministro Mateusz Morawiecki, leader del partito al potere Diritto e giustizia (Pis), recentemente ha realizzato una politica di estrema chiusura verso i migranti che si ammassano al confine con la Bielorussia, vietando ingerenze da parte dell’Unione europea. «È necessario difendere la democrazia ogni giorno. Przemyk si è rifiutato di mostrare la propria carta di identità alla polizia, perché la legge marziale era stata sospesa. Era un ragazzo che conosceva bene i suoi diritti e vorrei che ciascuno di noi potesse avere questa consapevolezza e sostenerla. Il pestaggio è stato solo la punta dell’iceberg di un sistema su cui volevo ragionare. Mi accorgo che molti miei concittadini sono indifferenti alla politica. Vorrei scuoterli. La paura è sempre dietro l’angolo. Il caso di George Floyd e quello di Giulio Regeni lo dimostrano. Il massimo che posso fare come cittadino è girare film come Leave no traces. Dopo quarant’anni c’è la giusta distanza e sono emersi tutti gli elementi per valutare i fatti e ribadire: quanto accaduto anni fa può accadere di nuovo». Matuszyński è al suo secondo film dopo The last family, che ha vinto il premio per il migliore attore a Locarno. Nato nel 1984 a Katowice, il regista parla di avvenimenti successi prima della sua nascita: «Sono molto interessato alla Storia recente del mio Paese, perché nessuno me l’ha insegnata e a scuola non se n’è mai parlato. Così quando ho letto il libro di Cezary Łazarewicz, da cui ho tratto ispirazione, ho capito che questo film poteva riempire parte del vuoto di conoscenza della mia generazione».Per esplicita ammissione del regista c’è un che di Blow up di Antonioni in Leave no traces, perché la chiave è il punto di vista del testimone, che ha visto abbastanza, ma non tutto. «Inizialmente pensavo che la madre sarebbe stata la protagonista, ma poi ho realizzato che Jurek, figura in parte inventata, avrebbe fornito un punto di vista più stringente, diventando il nemico numero uno dell’intero apparato. Lo Stato, la polizia e il generale Jaruzelski tentano di infangare lui, Sadowską e la memoria dell’amico, sottoponendo anche parenti e amici a pressioni e a tentativi di corruzione». La sceneggiatura, scritta da Kaja Krawczyk-Wnuk, è tesa e brillante, i costumi impeccabili, la durata, 160 minuti, quasi da mini serie televisiva, formato con cui Matuszyńskisi si è recentemente cimentato ne Il re di Varsavia, tratto dall’omonimo romanzo di Szczepan Twardoch (Sellerio, 2020) e prodotto da Canal+. «Non credo che le serie rimpiazzeranno il cinema. Lo dicevano anche della televisione. Basta avere un progetto forte».
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Cristina Battocletti