“Ariaferma”: una bella favola nel deserto dei Tartari carcerario

Il carcere di Mortana, dove è ambientato Ariaferma, non esiste, ma Leonardo Di Costanzo apre il suo bel lungometraggio su un tappeto di canti e su una teoria di rocce-sculture che ci rivelano un coté sardo. La prigione in fondo è sempre comunque un’isola e come tale ha dinamiche che paradossalmente esondano la legge, inquadrando una peculiare comunità, con regole autonome e invalicabili, cui non sfuggono carcerati e carcerieri.
Mortana è una vecchia prigione ottocentesca che sta per serrare i battenti, ma quando tutto è pronto al trasferimento collettivo una dozzina di detenuti, per un cavillo burocratico, non riesce a trovare accoglienza in altri istituti di pena ed è costretta a restare nella vecchia struttura, che si trasforma in un Deserto dei Tartari buzzatiano. Viene da subito in luce un primo forte tema sociale, quello del sovraffollamento delle carceri (il film è ispirato dall’ex Guardasigilli Paola Severino), che Di Costanzo inquadra, ma da cui non si lascia imbrigliare, tenendolo sottofondo, perché è interessato soprattutto al magma umano che nasce e cresce negli spazi bianchi di vicende sociali complesse.

Da destra, Toni Servilllo e Silvio Orlando sul set del film "Ariaferma" di Leonardo Di Costanzo. Foto di Gianni Fiorito

Da destra, Toni Servilllo e Silvio Orlando sul set del film “Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo.
Foto di Gianni Fiorito


È un’espediente, quello di affrontare lateralmente un’istanza civile, che il regista campano ha già usato in due film precedenti, entrambi prodotti da Tempesta con Rai Cinema: L’intervallo (2012), in cui due adolescenti, chiusi in un edificio abbandonato, sfiorano per un attimo l’idea di deviare le loro vite già segnate dalla camorra; e ne L’intrusa (2013), dove la moglie di un boss mafioso trova riparo in un centro che protegge l’infanzia dall’ambiente malavitoso che lo circonda.
In Ariaferma il senso di precarietà di un’esistenza già in bilico, come può essere quella di un detenuto, aumenta nell’incertezza della nuova destinazione e dei tempi di trasferimento, nell’impossibilità di avere colloqui con i propri cari e di avere un vitto decente. Così lo sciopero della fame diventa l’arma di pressione dei detenuti sugli agenti, di cui fiutano la paura e lo smarrimento, poiché anch’essi sono ignari del proprio futuro.
Comincia una sfida tra Carmine Lagioia (Silvio Orlando), che guida il manipolo dei ribelli e il responsabile ad interim del carcere, o di ciò che ne resta, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo). Ciascun fronte ha divisioni, smottamenti e defezioni, ma ogni membro risponde alla fine compatto alla propria falange di appartenenza, fino a che non interviene un espediente che ha a che fare proprio con il cibo, metro della dignità umana.

Di Costanzo anche in Ariaferma sembra mantenere un leitmotiv, presente nella sua filmografia: il contesto ci rende quello che siamo, e il nemico in fondo non è così diverso da noi. Ma rispetto alle precedenti pellicole del regista campano Ariaferma ha uno strano sapore di favola, anche senza mai perdere realismo.
Di Costanzo ha scritto questo film con Vania Santella e Bruno Oliviero, già coautore de L’intrusa e che nel 2018 aveva girato Cattività, un intenso documentario sul tema carcere e teatro, tra le cui vette c’è Cesare deve morire dei fratelli Taviani (e non a caso nel cast c’è uno degli attori del film che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel nel 2012, un magnifico Salvatore Striano, nel ruolo di Cacace).
Ad aiutare la magia del film ci sono Servillo e Orlando, che per una volta si scambiano i ruoli in cui sono soliti navigare: il furbo, maledetto e cinico per Servillo e il loser malinconico, riflessivo e sentimentale nel caso di Orlando. Senza contare la presenza di Fabrizio Ferracane, nei panni del grillo parlante di Servillo, e la bella fotografia di Luca Bigazzi.