Le peggio periferie degli altri

Il racconto dei sobborghi francesi e americani è più urgente di quello dei quartieri dormitorio italiani, perché ad armarsi di macchina da presa sono le seconde generazioni di immigrati. Come Ladj Ly

Si esce con la tachicardia dalle corse nelle banlieue di Ladj Ly. Lo spettatore è braccato come i Miserabili del quartiere Montfermeil, in cui Victor Hugo ha ambientato due secoli fa il suo capolavoro e in cui oggi il regista francese di origini maliane ha cercato i tanti Jean Valjean per restituire loro dignità e nome. «È soprattutto la mia storia. Tutto è reale dalla prima all’ultima scena», ha sottolineato il regista 42 enne che vive a Montfermeil. I suoi miserabili hanno per lo più la pelle scura e i tratti mediorientali; sono i figli delle colonie, accolti in Francia come manovalanza o come atto riparatorio di un rimorso di coscienza. Espulsi dal centro della città, imbrattano, delinquono, umiliano e vengono umiliati in un’eterna caccia al gatto e al topo con la polizia. Il regista è stato uno di quei bambini neri come la pece, che nel film ciondolano sul terrazzo condominiale, incerti su quale cattivo esempio modellare la propria condotta: quello dei genitori che a loro volta l’hanno subito, o quello dei servitori dello Stato che per disperazione fanno un uso del tutto originale e spregiudicato della legge.


Quando I miserabili è passato in concorso a Cannes, si è subito capito che era materiale combustibile e il premio della giuria quasi uno scivolo obbligato: «La banlieue l’avete sempre raccontata voi da fuori, oggi prendiamo noi la parola e ve la offriamo come vogliamo», ha precisato Ladj Ly, dove con il voi indica il cittadino francese che si immerge nella periferia con il sensazionalismo della novità sociologica, spesso velata da un iper buonismo pruriginoso e vigliacco. Ladj Ly scolpisce i suoi emarginati in maniera diretta e urgente, diventando finalmente l’anello di congiunzione con quelli che lui chiama voi e che sono stati capaci di rappresentare la destabilizzazione sociale delle banlieue attraverso l’immedesimazione. È il caso di Mathieu Kassovitz con L’odio (1995) che racconta una giornata di tre ragazzi, un ebreo dell’Est (Kassovitz stesso è figlio di un ebreo ungherese), un arabo e un nordafricano immigrato di seconda generazione, nella periferia degradata di Parigi. Un film adrenalinico e deviato con cui il viso angolare di Vincent Cassel è entrato nel pantheon dei mostri sacri.

Lo stesso è capitato a quel capolavoro che è Un profeta (2009) di Jacques Audiard, in cui un giovane francese di origini magrebine, dopo un excursus tra orfanotrofi e riformatori, compie un percorso di studi nell’università specialissima del carcere e si laurea boss della malavita. Anche qui per la grande sottigliezza di sceneggiatura e regia il film si è aggiudicato un nugolo di premi, tra cui Grand Prix Speciale della Giuria sempre a Cannes. In Francia il tempo e l’omogeneità linguistica hanno permesso di tessere un civismo più profondo, in cui le origini e le ragioni del disagio sono state messe a fuoco, senza per questo riuscire ad espellere il razzismo, come dimostra il successo politico dell’estrema destra.Gli immigrati che si stipano nelle periferie delle grandi città italiane hanno radici più “giovani” di quelle dei nuovi francesi. Da noi nessun immigrato di seconda generazione ha ancora imbracciato la macchina da presa come un’arma sociale, riuscendo a creare capolavori come Les Miserables. La nostra periferia contemporanea è raccontata – salvo piccole avventure senza la rabbia sufficiente per creare disorientamento -, solo dagli italiani e risulta a volte grottesca, rabbonita dal temperamento mediterraneo. È lontana la genuina malinconia, appuntita dall’ironia proletaria, del primo Virzì. Il racconto dei nostri quartieri dormitorio è artificiosamente virato all’horror o alla caciara regionale, quando non al grand guignol gomorriano. Manca l’anello di congiunzione al Pasolini di Accattone (1961) e de La ricotta (1963). PPP, che non è mai stato povero, frequentava e studiava il mondo delle borgate e forse ne è morto. Vicini a quella verità sono stati film come L’intervallo (2012) e L’intrusa (2017) di Leonardo Di Costanzo sui quartieri degradati dalla camorra di Napoli, o storie come Cuori puri (2017) di Roberto De Paolis, che ha fatto i conti con la comunità rom senza trasformarla nel carrozzone di zingari dai denti d’oro da iper-Kusturica. Francesca Comencini, regista da sempre vicina ai temi sociali, aveva realizzato un film sincero e assai trascurato, Un giorno speciale (2012), in cui fotografava la stagione, da degrado testoriano, delle ragazze che si offrono ai politici, con la benedizione dei genitori. Le favolacce dei fratelli D’Innocenzo sono una prova di capacità registica (a Berlino però hanno vinto l’Orso d’oro alla sceneggiatura), che mette insieme un Altmann nostrano, l’effetto Twin Peaks di David Lynch, l’oscura e geniale mano del Garrone, loro pigmalione, dell’Imbalsamatore (2002) e di Dogman (2018).

Hanno fotografato una periferia svilita dal culto dei centri commerciali, dalla schiavitù del telefonino, frustrata dall’alienazione sociale, resa magistralmente dal bravissimo Elio Germano. Ma sono viscere globalizzate: la pellicola potrebbe essere ambientata in Germania, come in Polonia e in Russia o in America. Di più avevano fatto con la violenta Terra dell’abbastanza (2018). Anche l’Inghilterra aspetta voci nuove. Il delirio nazi-alcolizzato di This is England di Shane Meadows risale al 2006. Tutto rimane sempre sulle spalle dell’irriducibile Ken Loach, che, da Piovono pietre (1993) a I, Daniel Blake (2016), continua la sua battaglia contro la disuguaglianza. Ken, figlio di operai, sa qual è il momento di non ritorno di una brava persona costretta a delinquere per sopravvivere. Ladj Ly ha messo in piedi a Monfermeil una scuola gratuita di cinema, l’école Kourtrajmé, perché “gli umiliati e offesi”  imparino a raccontare la propria storia come ha fatto lui. Lezione che in America hanno appreso molte decadi fa a partire da  Scorsese, figlio di poveri immigrati italiani, con il suo alter ego De Niro, da Taxi Driver (1976) a Toro scatenato (1980), per non parlare di Spike Lee e della sua versione abbagliante e goliardica del black power. Per ora Favolacce si può vedere su diverse piattaforme, I miserabili su MioCinema (www.miocinema.it) che devolve una percentuale del biglietto agli esercenti, come #iorestoinsala , in cui oltre settanta cinema simulano la visione di un film in sala. Lo spettatore paga il biglietto e ha il posto assegnato. Bellissima idea, romantica e consolatoria, ma l’unica via è tornare con il naso sotto il grande schermo. E magari per un Rocco e i suoi fratelli raccontato questa volta da un cittadino italiano, immigrato di seconda generazione.

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