Ha vinto il cinema-sogno, l’apologia della diversità, dell’imperfezione e del rispetto, che concilia pubblico e critica. Un lunghissimo applauso ha accolto la presidente della giuria, Annette Bening, mentre annunciava che il Leone d’oro della 74esima Mostra del cinema di Venezia era stato assegnato a Guillermo del Toro per il suo The shape of water. Il film racconta l’incontro tra una creatura marina fantastica, catturata dai servizi segreti americani durante la Guerra Fredda, e un’Amelie-Cenerentola, Elisa (Sally Hawkins), donna delle pulizie diventata muta dopo un trauma infantile. Elisa, in combutta con una spia sovietica, salva il mostro dai tanti volti, dio-taumaturgo e a volte bestia feroce, dalla gretta violenza benpensante dell’agente Strickland (Michael Shannon). Una favola noir subacquea che è anche un grande omaggio alla forza immaginifica del cinema. Il Gran premio della Giuria è andato a Samuel Maoz, che nel suo Foxtrot ha sperimentato registri differenti per una struttura in tre atti, usando la macchina da presa con un moto ondulatorio, simile allo stordimento provocato da un dolore insopportabile. Siamo in Israele e alla famiglia Feldmann viene comunicata la morte del figlio Johnatan (Yonatan Shiray), militare di leva. Iniziano algide e kafkiane procedure di gestione del lutto da parte dell’esercito davanti a un padre attonito, mentre poco dopo il film si sposta, assieme a Johnatan vivo e vegeto, in un posto di blocco perso nel nulla. Qui Maoz si esperisce in uno stile fumettistico, per poi sviluppare una cifra intimistica ritornando al contesto famigliare. In Foxtrot vi è lo stesso senso di oppressione che Maoz aveva raccontato nel carro armato di Lebanon, Leone d’oro nel 2009. E simile è anche il messaggio pacifista che trasmette il senso dell’assurdità della guerra. In Foxtrot però vi è un eccesso di manierismo che l’altra opera, dettata dall’urgenza di esprimere un’esperienza personale, non aveva. Il Leone d’argento per la miglior regia se l’è aggiudicato Jusqu’à la garde di Xavier Legrand, che ha conquistato anche il premio De Laurentis come migliore opera prima. Il film, in tono quasi documentaristico e debitore dell’esperienza teatrale cechoviana del regista, racconta una separazione brutale tra due coniugi in cui si appalesa pian piano la patologia possessiva di un uomo, convinto del proprio diritto di poter alzare le mani contro la famiglia. Il doppio premio, importante messaggio contro il femminicidio, ha un senso politico attuale, ma altri film, dimenticati dal palmares, avrebbero meritato evidenza. Come ha in fondo sottolineato Martin McDonagh, piuttosto scocciato di aver conquistato solo la sceneggiatura per Tre manifesti a Ebbing, Missouri. La pellicola, mettendo insieme gli Oscar Frances McDormand e Martin McDonagh, cuce in una commedia nera abilità di interpretazione e registica fuori dal comune e avrebbe potuto puntare all’oro. McDormand interpreta magistralmente una donna che compra tre spazi pubblicitari cubitali per denunciare lo stallo delle indagini sullo stupro e l’uccisione della figlia. Il regista non ha nascosto un nota di delusione usando la stessa ironia del film: «La cosa più bella di questa esperienza italiana sono stati la pasta e i Negroni». Applaudita ancora più di del Toro, è stata la Coppa Volpi come miglior interprete femminile a Charlotte Rampling, sulle cui spalle poggia Hannah, intenso film di Andrea Pallaoro. Con una sceneggiatura in sottrazione, Rampling restituisce il dolore di una donna che condivide la colpa del marito (André Wilms) per una presunta storia di pedofilia. I pochi indizi raccontano la disperazione dignitosa, ma senza riscatto, che ricorda certe situazioni di Amour o di Il nastro bianco di Michael Haneke. Il miglior attore, Kamel El Basha, ci riporta in Medio Oriente dove The insult di Ziad Doueri prende spunto da un piccolo incidente accaduto nel Libano contemporaneo tra un estremista cristiano e un ingegnere palestinese. Una lite per una grondaia crea un dissidio che rivela odi atavici, frutto di gravi conflitti del passato; l’episodio si trasforma in un caso giudiziario cheaccende una nazione, mentre i due contendenti finiscono per stimarsi silentemente, compassionevoli ciascuno verso il passato dell’altro. Qualche scivolata retorica (troppi flashback) non inficia la riuscita del film. Il premio speciale per la giuria va a Sweet country di Warwick Thornton, western in salsa aborigena, ritirato dallo scanzonato regista. Bell’esperimento, ma a maggior ragione non avrebbero sfigurato tra i premiati Vivian Qu con Gli angeli vestono in bianco, storia di abusi di infanzia in una Cina corrotta; e Ex Libris di Frederick Wiseman sulla New York Library, commovente tributo alla sacralità della conoscenza in tutti i suoi ingranaggi.Infine meritato premio a Charlie Plummer, protagonista di Lean on Pete di Andrew Haigh, storia del legame ostinato tra un ragazzino selvaggio e sensibile che perde la famiglia, e un cavallo. Struggente fotografia di una caparbia solitudine adolescenziale in una America, che ha avuto tanta parte in questa edizione della Mostra del cinema. Il concorso non ha mancato di sfoggiare un’alta qualità. Peccato per Paolo Virzì e il suo The Leisure Seeker, rimasti a mani vuote.
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