Addio a Giorgio Pressburger: il mitteleuropeo senza confini

Quando ti rivolgeva lo sguardo nella sua dinoccolata gentilezza, Giorgio Pressburger non ometteva mai di allargare un sorriso, che poteva volgersi in una malinconia improvvisa in cui si riconoscevano le cicatrici del Novecento. Di origini ebraiche, Pressburger, nato nella Budapest del 1937, era scampato alla Shoah, ma non aveva potuto tollerare la repressione sovietica seguita alla rivolta ungherese del 1956. Per questo si era trasferito a Trieste e vi ha vissuto per decenni, naturalizzandosi italiano.
Scrittore, regista, drammaturgo, con Giorgio Pressburger se ne va un altro gentiluomo del Secolo Breve, con una cultura vasta e profonda che sapeva orientare non solo nella lingua madre, l’ungherese, e in quella d’adozione, l’italiano, ma anche in tedesco, francese, inglese, russo e sloveno. Anche per questa sua abilità linguistica sarebbe riduttivo considerarlo un intellettuale mitteleuropeo, nonostante l’impronta ci fosse e fosse forte, se non altro nella cifra cosmopolita del modo di pensare e di studiare e imparare direttamente sulle fonti.
Fu, come autore, a lungo legato alla casa editrice Einaudi (“La legge degli spazi bianchi”, “L’orologio di Monaco” e “Sulla fede”), in cui esordì con una serie di racconti “La neve e la colpa” (1996), esprimendo al meglio la sua indole concisa e implacabile e rivelando il suo occhio sulla natura umana. Tra i suoi numerosi libri teneva particolarmente negli ultimi tempi a “Storia umana e inumana” (Bompiani, 2013) in cui aveva compiuto un girone dantesco fra figure di grandi dittatori, filosofi, artisti, facendo anche i conti con il suo passato e con la storia del popolo ebraico. Della sua vita aveva in certo modo già scritto con il gemello Nicola ne “L’Ottavo Distretto” (Lampi di stampa, 1999, poi Einaudi) raccontando l’elegante quartiere di Budapest, promessa architettonica ottocentesca, diventato poi il brulicante ghetto in cui i due fratelli erano cresciuti e da cui avevano dovuto scappare.

Giorgio Pressburger

Giorgio Pressburger


Aveva descritto la “sua” Trieste – cui doveva molte abitudini (il witz, il perdersi per i caffè, le conseguenze della bora, per esempio) e i più importanti affetti, tra cui Claudio Magris – in “Racconti triestini” pubblicato con Marsilio nel 2015, casa editrice con cui ha dato alle stampe anche il suo ultimo romanzo, nel 2017, “Don Ponzio capodoglio” in stile donchisciottesco.
Ma fu anche un notevole uomo di teatro – di lui si ricorda La partita (Premio Pirandello), Le tre madri (Premio Flaiano)-, nonché ideatore e direttore artistico dal 1991 al 2003 del “Mittelfest”, il festival di teatro che si svolge a Cividale del Friuli, che sotto la sue egida fu innovativa finestra tra l’Europa, i Balcani e i Paesi che vissero la stagione asburgica.
Non si lasciò sfuggire la politica, che lo vide assessore del Comune di Spoleto e Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Budapest. Nel 2009 fu candidato per l’Italia dei Valori alle elezioni europee. Ma non si riesce a pensare a Giorgio Pressburger come a un uomo di partito. Era libero come la cultura in cui esercitava il suo talento, privo di cavilli ideologici. Il ricordo più bello che chi scrive ha di lui, è nel vederlo passeggiare in viale XX settembre a Trieste con Boris Pahor dopo la presentazione della biografia dello scrittore sloveno “Figlio di nessuno”. Due grandi vecchi che si piegavano alle increspature dei loro ricordi, indignandosi per le malefatte della politica, ma anche capaci, poco dopo, di scoppiare in una risata liberatoria, nell’intesa di chi ha visto pesare la storia sulle proprie spalle.