Venezia ’74: colpo di coda sull’infanzia violata. Intensa la Charlotte Rampling di “Hannah”

Colpo di coda sull’infanzia violata: la 74esima edizione della Mostra del cinema di Venezia chiude i battenti di un concorso di alto livello con due film che esplorano la debolezza della condizione infantile. Si tratta di “Hannah” di Andrea Pallaoro in competizione assieme a “Jusqu’à la garde” di Xavier Legrand. Legrand, classe 1979, assiste al dolore di un bambino davanti al divorzio violento dei genitori e sembra sviluppare in questo suo primo lungometraggio il tema già affrontato nel suo lavoro precedente, un corto, “Avant que de tout perdre”, ospitato in molti festival e nominato agli Oscar come migliore cortometraggio nel 2014.


“Jusqu’à la garde” inizia davanti a un giudice minorile che deve decidere dell’affidamento del figlio minorenne Julien (Thomas Gioria) agli ex coniugi Besson. Miriam (Léa Drucker), madre di Julien, si è opposta alla richiesta di custodia congiunta richiesta dal padre Antoine (Denis Ménochet): quest’ultimo avrebbe usato di violenza contro la stessa moglie e la figlia grande. Il giudice, nonostante la testimonianza di Julien sia sfavorevole al padre, decide che Antoine ha diritto di passare con Julien, almeno durante il fine settimana.
Il film si dipana inizialmente quasi come un documentario e ha un impianto teatrale, con un impostazione laica rispetto alle parti; si sente l’influenza cechoviana, di cui Legrand ha assorbito la lezione portando diverse volte l’autore russo in scena come regista teatrale. Ma anche di quella scescpiriana. Legrand è bravo infatti a costruire l’escalation del sospetto e della paura preparando il terreno per lo scoppio di una tragedia, scoprendo pian piano le sue carte. La storia che racconta Legrand, quella di una moglie e di due figli che si sentono in balia della pazzia possessiva del padre-marito, è purtroppo l’emblema di una vicenda che si ripete quotidianamente in troppe case ed è descritta in maniera equilibrata senza nulla togliere alla mostruosità dei comportamenti. Il regista dà una spiegazione dei sentimenti patologici di Antoine nell’algidità della sua famiglia d’origine, ma non li giustifica mai.
Anche “Hannah”, impersonata da un’intensa Charlotte Rampling, di Andrea Pallaoro parla di abusi sull’infanzia senza mai far vedere l’oggetto delle violenze. Si tratta di congetture perché nel film di Pallaoro molto è frutto di una supposizione. La sceneggiatura, tutta in levare e in sottrazione, rivela pochissimi indizi che lasciano lo spettatore insicuro delle proprie cognizioni fino all’ultimo. Si intuisce un grandissimo dolore e la commissione di un reato, una lacerazione famigliare non sanabile che poggia tutta sulle spalle della brava Rampling. Hannah fa la domestica in una casa altoborghese in Francia e tiene in qualche modo compagnia a un bambino non vedente, che sembra circondato da benessere e molta solitudine. E’ su di lui che sfoga la sua tenerezza, non potendo stare con i nipoti perché la colpa caduta sul marito (André Wilms), che accompagna in prigione, è innominabile e comporta anche una sua responsabilità. Questa sua implicazione negli eventi non permette a Hannah di ribellarsi al suo dolore e nemmeno di essere schiacciata da esso, di suicidarsi, per esempio. Il figlio non la vuole più vedere, la vicina di casa batte sulla porta urlando: “Mio figlio si fa la pipì a letto” e invoca un incontro da madre a madre. Sono queste situazioni che non hanno traduzioni in parole, sembra dirci Pallaoro, che restituiscono una disperazione dignitosa che ricorda certe situazioni di “Amour” di Michael Haneke. Anche le lunghissime inquadrature su Rampling che in un primo tempo sembrano eccessive nella loro fissità e per l’esiguità dell’azione che inquadrano sono giustificate dallo sviluppo successivo della trama e rendono bene l’isolamento di cui è vittima la protagonista; unica sbavatura la scena in cui ad Hannah viene revocato senza spiegazione l’abbonamento alla piscina. Il poco credibile escamotage aiuta a sottolineare le difficoltà di una persona cui viene tolto ogni piacere della vita. Questa croce, questa colpa da portare senza possibilità di riscatto riconduce ancora a Haneke e al luteranesimo senza sconti di “Il nastro bianco”.
“Hannah” è il quarto film italiano in gara, ma di italiano ha pochissimo, se non altro perché interamente parlato in francese. Pallaoro, che è nato a Trento nel 1982 ed è andato presto a perfezionarsi in California, vive tra New York e Los Angeles. “Hannah” è il suo secondo lungometraggio, dopo “Medeas” che indaga, come promette il titolo, su una storia familiare ambientata nell’America rurale. “Hannah” è il primo promettente capitolo di una trilogia incentrata sulle donne.