Venezia ’74: deludente Kechiche, intenso il film sulla pedofilia di Vivian Qu

Abdellatif Kechiche è stato accolto da applausi e ovazioni alla conferenza stampa che ha seguito la proiezione di “Mektoub, My love: Canto uno”, in concorso alla 74esima Mostra del cinema. Il regista si è goduto il calore di uno zoccolo duro degli ammiratori da solo, facendo entrare, fatto non usuale, nella sala gli attori qualche minuto dopo il suo arrivo. Non ha ricevuto lo stesso calore, invece, la sua pellicola che aveva suscitato anche qualche fischio.
“Mektoub, My love2” racconta la storia di Amin (Shaïn Boumedine), studente di medicina, che ha lasciato gli studi a Parigi per dedicarsi alla carriera di sceneggiatore e torna nel suo paese di origine nel Sud della Francia per passare lì le vacanze estive. Qui è avvolto dalla comunità della famiglia allargata di origine tunisina e dalla compagnia degli amici. Tra questi c’è il cugino Tony (Salim Kechiouche), che è un tuttofare nel ristorante di famiglia con specialità arabo-asiatiche e amoreggia con Ophélie (Ophélie Bau) , nonostante sia fidanzata e in procinto di sposarsi con un amico di Tony, militare di carriera in missione. Il film inizia con una citazione biblica sulla luce e il protagonista Amin in bicicletta viene spesso coperto dal sole accecante che infastidisce anche lo spettatore. Già da queste prime inquadrature si capisce che Kechiche intende volare altissimo, trascurando – per venire incontro al suo desiderio creativo – una delle prime regole della regia e della fotografia: mai riprendere una persona in controluce. Questa mancata accortezza registica, dolosa, non oscura la bellezza del protagonista, giovane dai tratti regolari e armoniosi su cui indugia e punta la macchina da presa. E’ solo il primo degli atti indagatorii di Kechiche che subito “sorprende” Tony e Ophélia mentre fanno l’amore. Il regista sembra voler vedere solo attraverso il criterio del desiderio maschile, quindi l’attenzione è tutta per il corpo formoso della ragazza nelle sua statuaria e florida avvenenza. Un registro che ricorda le estenuanti riprese dei rapporti sessuali che costellavano “La vita di Adele” (Palma d’oro a Cannes nel 2013) e che erano costate al regista una “denuncia” da parte delle interpreti, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, che si erano dette umiliante nella loro intimità.


Forse proprio a causa di quella boutade gli attori di “Mektoub” sembravano aver subito il veto di parlare in conferenza stampa, salvo un debole e cortissimo intervento da parte di due di loro.
L’attenzione dei corpi per regista franco tunisino – che proprio al Lido aveva portato la sua opera di esordio “Tutta colpa di Voltaire” 2000 e qui si era aggiudicato il Premio Luigi De Laurentiis per la miglior opera prima-, continua lungo tutto il film sulla spiaggia o nelle scene (troppo) lunghe del divertimento notturno in discoteca, dove in primo piano è ancora la nudità dei corpi femminili che il regista attribuisce al punto di vista di Amin. Eppure il film – che indaga l’amore, la labilità delle passioni nell’età della prima giovinezza e la contaminazione con le regole sociali – sembra sfarinarsi in troppi rivoli per poter “obbedire” a un solo punto di vista. Ma soprattutto è privo di una reale svolta, per quanto il regista sia bravo a rendere la vita quotidiana.
Papabile al palmares, invece, “Gli angeli vestono di bianco” di Vivian Qu che racconta una storia di pedofilia e povertà sociale in una Cina corrotta e senza speranza. Siamo in una località di mare in cui la bella costa è violentata dagli abusi edilizi.

In uno dei tanti alberghi lavora l’adolescente Mia (Ke Shi) che si piega a fare i lavori più umili perché priva di documenti. Una notte vede arrivare un uomo di mezz’età con due bambine, una di esse indossa una parrucca bionda. Mia ha la tentazione di impedire all’uomo di prendere le due camere richieste, ma la sua condizione di clandestina non le permette di fare questioni. L’unica accortezza che ha è quella di riprendere con il suo telefonino la telecamera di videosorveglianza mentre l’uomo entra nella stanza delle minorenni. La denuncia da parte dei genitori di una delle due bambine fa scaturire un panorama di desolazione umana e sociale che avvolge le due piccole. Quella con la famiglia disgregata vorrebbe giustizia, quella con la famiglia “formalmente impeccabile” preferisce insabbiare il tutto in cambio di una somma cospicua. Di mezzo ci sono un alto dirigente, un ispettore di polizia ambiguo e un’avvocato decisa a far saltare fuori la verità: Vivian Qu sa raccontare senza crudezze e voyeurismi, ma con realismo una Cina di prevaricazioni e di bruttezza, amoralità diffusa. E questo potrebbe suscitare l’interesse della presidente di giuria, Annette Bening.