Primo bilancio di Cannes 70: Fiabe nere della diversità Piccoli protagonisti derubati dell’infanzia, emarginazione e immigrazione. Il film più bello è «Loveless»

Adulti raffreddati e autocompiaciuti, ragazzini derubati di calore e leggerezza, una società egoista allergica al diverso: la prima parte del 70esimo festival di Cannes ha raccontato un occidente malato e allarmante. La rassegna è partita con una pellicola confusa nei generi e nella trama, Il fantasma di Ismael, di Arnaud Desplechin, in cui una moglie, Carlotta (Marion Cotillard), torna dopo vent’anni a guastare l’esistenza a Ismaël Vuillard (Mathieu Amalric), che vive una nuova relazione con Sylvia (Charlotte Gainsbourg). Un rovello deludente tra sogno e incubo, ingarbugliato dall’inserzione di un film nel film, scritto dallo stesso Ismaël, sulla misteriosa figura del fratello (Louis Garrel). Iperfrancese dagli interni délabré all’abbigliamento bobo, la pellicola ha garantito un avvio di festival patriottico, con le étoile nazionali, facendo rimpiangere i kolossal che movimentavano almeno il tappeto rosso. Si è recuperato subito con Loveless di Andrey Zvygintsev, storia di un dodicenne, Alyosha (Matvey Novikov), che sparisce dopo aver sentito i genitori, Zhenya (Maryana Spivak) e Boris (Alexei Rozin), mentre cercano di evitarne l’affidamento negli accordi di separazione.


L’assenza di Alyosha rispecchia quella delle istituzioni – la polizia è svogliata nelle ricerche e inquisitoria nei confronti della madre -, e quella dei genitori inconsistenti, egoisti, dediti solo al lavoro e a postare la propria vita sui social network. Zvyagintsev torna sulle orme de Il ritorno (Leone d’oro a Venezia nel 2003) e racconta l’abbandono morale e materiale, anche della politica russa, già denunciato con Il Leviatano (migliore sceneggiatura nel 2013 a Cannes). Forte dei non detti, il regista russo lascia meno spazio ai paesaggi desolati di cui nutre il suo cinema per privilegiare gli interni, anche se non mancano scorci impressionanti e malinconici. Un intrico che potrebbe piacere all’Almodovar di Julieta (2016), che probabilmente non ha amato Okja di Bong Joon-ho, uno dei due film del circuito Netflix in gara. Presidente di giuria, Almodovar durante l’inaugurazione aveva espresso riserve sulla presenza in competizione di film che non passano nelle sale. In questo caso, la pellicola è anche fragile, nonostante Tilda Swinton e la sacrosanta campagna contro le torture verso gli animali. Protagonista una bambina coreana, Mija ( Ahn Seo-hyun), che non vuole restituire il suino gigante che la multinazionale della Swinton ha creato e le ha affidato. Sono divertenti le incoerenze narcisistiche in cui cade il manipolo animalista capeggiato da Paul Dano, ma il tutto precipita nel macchiettismo e nella prevedibilità. Come suona vecchia (e non per le ricostruzioni storiche) Wonderstruck di Todd Haynes, ispirata all’omonimo romanzo di Brian Selznick, anche sceneggiatore. Due bambini, entrambi sordi per circostanze diverse, scappano alla ricerca di una madre e di un padre in epoche diverse: Rose (Millicent Simmonds) nel 1927 e Ben (Oakes Fegley) nel 1977. Le loro esistenze si incrociano al museo di storia naturale con un che di faticoso e pretestuoso per un Todd Haynes minore rispetto a Carol. È una fiaba, ma nera, anche quella di Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza alla Settimana della critica, ispirata alla vicenda di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino sciolto nell’acido dalla mafia. Il tema è importante ma la resa è manieristica, opposta rispetto al molto applaudito A ciambra di Jonas Carpignano che segue un adolescente nella sua comunità rom a Gioia Tauro. Il rapporto con la diversità è indagato anche da The square di Ruben Östlund con una caustica analisi della società svedese senescente e benestante, in cui urbanità e correttezza scemano al contatto con la povertà, a spese della dignità altrui. Östlund, che aveva già (e meglio) raccontato la vigliaccheria dell’animo umano all’insorgere delle difficoltà in Forza maggiore (2014), si diverte a prendere in giro il mondo dell’arte contemporanea attraverso Christian (Claes Bang), direttore di museo cui precipita la vita addosso dopo il furto del suo cellulare. Purtroppo, si è avvertita la struttura pensata per la televisione. Sullo stesso filone Kornél Mundruczò racconta l’emigrazione in Jupiter’s moon. Il regista ungherese aveva già portato nel 2014 a Cannes una stranissima storia vincitrice della sezione Un certain regard: White God – Sinfonia per Hagen, allegoria dell’intolleranza attraverso il legame di una ragazzina e il suo cane. Nel nuovo film un rifugiato siriano, Ariaan (Jéger Zsombor), non riesce a passare il confine tra l’Ungheria e la Serbia perché colpito dalla polizia. Invece di morire levita trasformandosi in una specie di alieno immortale e benefico, ingannato da un medico spregiudicato, Stern (Merab Ninidze), che finisce per amarlo. Un po’ di retorica, troppi generi, dallo spionaggio terroristico all’indagine mistica, il film ha il pregio di entrare davvero dentro la pelle dei disperati e perseguitati senza colpa, come nell’installazione Carne y Arena di Alejandro G. Iñárritu, prodotta e sostenuta da Prada. A mezz’ora dalla Croisette i partecipanti vivono l’esperienza del deserto di chi tenta di superare il muro tra Messico e Stati Uniti. Altra forma di emarginazione quella di 120 battements par minute di Robin Campillo che ha ripreso la battaglia di Act up Paris, il gruppo che nei primi anni Novanta con azioni dimostrative a Parigi informava sulla prevenzione e sulle conseguenze dell’Aids. Una pagina importante della storia dietro l’angolo che però è troppo spiegata, lasciando poco lavorare le immagini. Anche la chanteus Barbara si era spesa per la causa e a lei Amalric ha dedicato l’omonimo film, passato in Un certain regard: troppo cerebrale per restituirne il mito al netto dell’interprete, Jeanne Balibar, che è Barbara con grande maestria.
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