Arriva a Cannes Tilda Swinton con la sua favola animalista e anticapitalista. Dall’ungheria si parla di immigrazione

Fischi e un levare di applausi polemici alla proiezione del primo film di Netflix in gara alla 70esima edizione del festival del cinema di Cannes, “Okja”, di Bong Joon-ho. I dietrologi hanno pensato alla congiura contro la piattaforma streaming on demand, iniziata con la dichiarazione del presidente della giuria, Pedro Almodovar, all’inaugurazione del festival in cui il regista spagnolo sosteneva di non aver nulla contro le nuove tecnologie ma di considerare paradossale che la rassegna del cinema più importante del mondo potesse essere vinta da una pellicola che non passava su grande schermo. In realtà i fischi erano dovuti all’errore tecnico nel formato della proiezione, cui si erano aggiunte le proteste della stampa che a causa dei controlli serratissimi all’ingresso, non era riuscita, nonostante il forte anticipo, a entrare in tempo in sala. Cannes si prepara infatti al fine settimana di grande afflusso di curiosi e film lovers su cui aleggia la nevrosi del terrorismo, memore dell’attentato del 14 luglio dell’anno scorso a pochi chilometri dalla Croisette, a Nizza.


“Okja” continua l’onda favolistica che ieri ha dominato il festival con “Wonderstruck” di Todd Haynes in competizione e “Sicilian Ghost Story” di Grassadonia e Piazza alla Settimana della critica. Il film del regista sudcoreano apre con Tilda Swinton nel ruolo di una biondissima imbonitrice della multinazionale familiare che ha in animo di creare giganteschi suini da mandare al macello, occultando l’operazione con un marketing cosmetico per superare la percezione negativa dei consumatori nei confronti degli Ogm. Lo stratagemma consiste nell’affidare l’allevamento degli enormi maiali ad alcune famiglie sparse nel mondo; qui la storia si sposta in Sud Corea dove una ragazzina, Mija ( Ahn Seo-hyun), vive tra le cime di un’imprecisata montagna con il nonno e Okja, il suino geneticamente modificato. Quest’ultimo disegnato per strappare empatia: simile al cane-drago de “La storia infinita” o all’ippopotamo della Linus, con gli occhi dolenti e dolci e un incedere perfettamente commisurato alla stazza grazie ai notevoli effetti speciali. Okja è più di un animale per la sua padroncina, è una compagna di giochi, una mamma, una protettrice, su cui incombe la grande competizione suina in America cui dovrà partecipare. Il momento della separazione tra Mija e Okja arriva quando una troupe capitanata da Jake Gyllenhaal, un incrocio tra Piero Angela e Licia Colò, viene a prelevare l’animale, all’insaputa di Mija, ingannata dal nonno.
Mai misurarsi con la smisurata potenza dell’infanzia che mescola un’energia smisurata al sentimento di onnipotenza, sembra voler spiegare Bong Joon-ho. Inizia così la corsa di Mija al salvataggio di Okja, cui si aggiunge un esercito animalista capeggiato da Paul Dano, contro il mondo dei media senza valori e il capitalismo selvaggio. In una favola è normale e forse giusto banalizzare i concetti, ma – a parte qualche battuta molto indovinata sulle incoerenze e narcisismi degli eroi dell’anticapitalismo, alcune scene degne dei migliori film di azione e di arti marziali -, la storia stanca presto con una buone dose di prevedibilità. Certa attenzione ai particolari è degna di alcuni virtuosismi di Wes Anderson, ma il tutto suona déjà vu, anche se la denuncia delle atrocità del nostro sistema contro gli animali non è mai abbastanza ripetuta.
Non si capisce perché un film come questo sia in concorso a Cannes, se non forse per puntare ancora l’attenzione su Netflix – l’altro film prodotto dalla piattaforma è “The Meyerowitz Stories” di Noah Baumbach sarà domenica in gara – con la polemica per altro spenta subito dal regista coreano in conferenza stampa, che ha dichiarato di amare molto le opere di Almodovar e di come la questione fosse pretestuosa, visto che la maggior parte dei film che passano a Cannes non arriva nelle sale. Il compromesso, ha sottolineato il regista, è che “Okja” sarà visto anche in Corea.
Fischiata, ma con un fascino suo, molto originale, l’altra pellicola in concorso di oggi, “Jupiter’s moon” di Kornél Mundruczò. Il regista ungherese aveva già portato nel 2014 una stranissima storia che aveva vinto Un certain regard nel 2014: “White God – Sinfonia per Hagen”, in cui si sviluppava un legame tra una ragazzina e il suo cane, allegoria dell’intolleranza nei confronti del diverso.

Concetto sviluppato da “Jupiter’s moon” che racconta il tentativo di un manipolo di profughi di superare il confine tra l’Ungheria e la Serbia, fallito per l’intervento della polizia. Si entra davvero dentro la pelle dei disperati e perseguitati senza colpa, nell’acqua dove rischiano di affogare e nelle corse a rotta di collo, presto fermate da un poliziotto, László (György Cserhalmi), dai metodi troppo sbrigativi tanto da freddare a colpi di pistola il protagonista della storia, Ariaan (Jéger Zsombor). Purtroppo sarebbe da scrivere niente di nuovo sul fronte occidentale, uno dei tanti immigrati morti senza poter essere riconosciuto e pianto. E il ragazzo invece di morire comincia a levitare con il protagonista di “Vertigo” di Paul Auster. Si mescola una storia di disperazione nei campi profughi con un medico spregiudicato, Stern (Merab Ninidze), il genere poliziesco con l’incubo del terrorismo, la spy story, l’indagine mistica. A volte viene in mente la stranezza del camaleontico “Holy motors” di Leos Carax, passato a Cannes nel 2012, con qualche momento di retorica. Eppure il film si lascia guardare senza esitazioni, e rimane il desiderio di riflettere meglio sul nostro autoreferenzialismo europeo. E in più regala una delle più belle scene di inseguimento adrenalinico che si siano viste negli ultimi anni.