I bambini infelici di Cannes: il film da palmares di Zvyagintsev e la fiaba retrò di Todd Haynes

Da Cannes

Zhenya (Maryana Spivak) e Boris (Alexei Rozin) non hanno più nulla da dirsi se non prendere accordi per vendere la casa, dove avevano vissuto come marito e moglie, e per l’affidamento del figlio dodicenne Alyosha (Matvey Novikov), che nessuno dei due vorrebbe tenere con sé. Andrey Zvyagintsev porta ancora la Russia a Cannes, anche se molto diversa da quella di ruvidezza ascetica di cui nutre il suo cinema e dove il regista è nato 53 anni fa (a Nosibirsk, nel distretto federale siberiano). Solo le inquadrature iniziali di “Loveless” riportano alla desolazione e al fascino de “Il ritorno”, a buon diritto il Leone d’oro 2003, e nella remota casa del “Leviatano”, premio migliore sceneggiatura nel 2013 a Cannes. Le prime immagini sono riservate a tronchi nodosi coperti dalla neve, accompagnate da accordi di piano gravi e dal volume in crescendo. Tra questa vegetazione si muove Alyosha impigliandovi un nastro di plastica a strisce bianche e rosse che si usa per limitare l’accesso a un luogo: un presagio o solo un indizio, forse un gioco. La macchina da presa sembra scegliere lui come protagonista all’uscita della scuola, con la sua aria sognante, ma corrucciata tra le mura di casa. Rimane la presenza attorno cui ruota la storia, ma Zvyagintsev lascia ampio spazio ai genitori, ai loro egoismi, alle loro fragilità adolescenziali. Zhenya si è legata a un uomo molto più maturo di lei ed è costantemente connessa sui social media: ogni aspetto della sua giornata, dal taglio di capelli a una cena intima, è postato e trasmesso agli amici. Boris, cui sta per nascere un altro figlio da una compagna molto più giovane, è terrorizzato di perdere il posto di lavoro perché il suo responsabile è un religioso ortodosso e vedrebbe male la sua separazione. Zvyagintsev continua sul solco del difficile rapporto tra genitori e figli de “Il ritorno”, contestualizzandolo in una Russia spoetizzata e omologata al resto del mondo occidentale, senza dimenticare la sua personale denuncia dell’oppressione politica russa, attraverso i notiziari che riferiscono dello stillicidio delle vittime civili in Ucraina.

In conferenza stampa non manca, dopo la dichiarazione della produzione di non aver ricevuto un rublo di finanziamento dal Governo, il giornalista russo che domanda perché esporre il proprio Paese al fango in una vetrina internazionale. Il senso di soffocamento del regista russo nei confronti della politica russa non è un mistero, tanto da esprimerlo in maniera palese già negli “umiliati e offesi” del “Leviatano”. Ma il film, che è un ottimo candidato alla Palma d’oro, la cui indagine interiore potrebbe essere in sintonia con le ultime macerazioni almodovariane, ha un suo grandissimo valore per la sceneggiatura piena di non detti e per la meravigliosa fotografia del timidissimo Mikhail Krichman, sorpreso e quasi impaurito dalla ovazione della critica in conferenza stampa; ma soprattutto per la riflessione su una società entrata nel cul de sac del suo autoreferenzialismo, in cui nessuno è conscio dei sentimenti più profondi.
Ancora bambini protagonisti nella favola “Wonderstruck” di Todd Haynes, ispirata all’omonimo romanzo di Brian Selznick, anche sceneggiatore. Due bambini, entrambi affetti da sordità per circostanze diverse, scappano dalle case dove si sono consumati troppi drammi e troppi silenzi. Solo che Rose (Millicent Simmonds) vive la sua avventura nel 1927 e Oakes Fegley (Ben) nel 1977.

Due piccole esistenze che si incrociano al museo di storia naturale e al diorama di New York per trovare la verità sulla propria famiglia e gli affetti veri. Filologicamente impeccabili le ricostruzioni degli ambienti e del tempo, bravissimi i piccoli interpreti e Julianne Moore, a suo agio in qualsiasi ruolo, dalla madre matrigna alla nonna benevola, il film è stato applauditissimo in sala. La storia aveva sullo schermo però un che di faticoso e pretestuoso e forse con un Todd Haynes minore rispetto solo all’ultima sua fatica di due anni fa “Carol”.