Che bella sorpresa a Venezia: il Piccione si è mangiato il Leone

Corrosivo, nero e graffiante, il Leone coraggioso si infilò nel becco del Piccione e si fece mangiare. In linea con uno dei caustici quadretti che lo svedese Roy Andersson dipinge in Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, la giuria della 71esima edizione della Mostra del cinema di Venezia ha premiato come miglior film una pellicola che in 39 piani sequenza dipinge un’umanità balorda, scorretta, salace di umorismo scandinavo che ricorda quello del vicino di casa Kaurismäki. Il piccione si vede solo all’inizio del film, imbalsamato in una teca, rimirato da individui coperti di biacca, così come lo sono tutti i personaggi stralunati delle scene successive, simili a tele di Edward Hopper. Sgusciano sullo schermo depressi venditori di scherzi per far ridere la gente, il secentesco Re Carlo XII di Svezia che in un pub recluta uno scudiero perché dorma nella sua tenda, un’insegnante sovrappeso di flamenco che insidia il proprio allievo a colpi di tacco e roteare di mani. Meglio non si poteva sperare in questa rassegna che ha visto passare tanti film di buona qualità, anche se dispiace per l’ottimo Birdman di Alejandro González Iñárritu, che avrebbe potuto ben competere con il Piccione.

In linea con il Leone d’oro arriva quello d’argento, affidato per Le notti bianche di un postino nelle mani di Andrej Konchalovsky che già lo aveva ritirato dodici anni prima per La casa dei matti. Anche qui fa capolino un animale, un gatto grigio che ogni tanto sbuca come un fantasma a casa di Lyokha (Aleksey Tryapitsyn), protagonista della pellicola e vero postino che il regista russo ha seguito in un villaggio sul Lago Kenozero. Un viaggio tra gli abitanti di un minuscolo puntino della carta geografica nel Nord della Russia tra attori non professionisti (tranne due) che recitano loro stessi senza copione, ruotando attorno alla storia di un furto che pregiudica la possibilità per Lyokha di continuare a lavorare. Ma qui non c’è aria documentaristica, c’è piuttosto molto realismo magico (il gatto in primis), fiumi di letteratura russa sotterranea (Bulgakov, Dostoevskij), uno spiritualismo panteistico dove la Natura incombe, domina, avvolge. Ma un premio, e anche importante, a un documentario comunque c’è: lo sconvolgente The look of silence conquista il Gran premio della giuria. Joshua Oppenheimer (che Domenica ha intervistato in anteprima il 24 agosto scorso, vedi il blog al 24 agosto) riprende le fila del precedente e in parte contestato The act of killing, dove i sicari del genocidio indonesiano, avvenuto dopo il colpo di Stato di Suharto nel 1965, mimavano con fierezza le proprie gesta. Questa volta il regista texano pone in un confronto empatico e scioccante gli aguzzini e un famigliare delle vittime del massacro senza conciliazione.
Anche l’Italia ha portato a casa due risultati di tutto rispetto: entrambe le coppe Volpi per le migliori interpretazioni femminile e maschile per Alba Rohrwacher e Adam Driver, rispettivamente i Mina e Jude di Hungry Hearts. Un riconoscimento giustificato dalla compassione con cui Saverio Costanzo accarezza l’ossessione, enfatizzata attraverso l’uso spinto di grandangoli, in cui scivolano i suoi “cuori affamati”. Jude non riesce ad opporsi, forse per troppo amore, alle fissazioni di Mina – Alba Rohrwacher era stata per Costanzo già la ragazza anoressica in La solitudine dei numeri primi – per la cura del figlio neonato, che non esce mai di casa e che viene nutrito con un regime alimentare letale per la crescita. Hungry Hearts, ambientato a New York e recitato in inglese, riesce a tenere teso il racconto su un filo minimalista, mai giudicante, anche quando balugina chiara la pazzia. Sicuramente il presidente della giuria, il compositore Alexandre Desplat, deve aver apprezzato la colonna sonora originale di Nicola Piovani, già premio Oscar per La vita è bella nel 1989. Peccato per la Calabria scespiriana di Francesco Munzi con i suoi figli sgozzati tribalmente al pari delle capre in una infinita guerra ombelicale; peccato per il ritratto ribelle e fuori dalle righe che Mario Martone ha audacemente dipinto per Giacomo Leopardi, grazie anche alla recitazione mai banale di Elio Germano. Si spera che siano le sale a riconoscere il valore di Anime nere e Il giovane favoloso.
La coppa Mastroianni va giustamente al piccolo Romain Paul di L’ultimo colpo di martello di Alix Delaporte, ribelle di fronte a un dolore, la malattia esiziale della madre, che le sue spalle non sono abbastanza grandi per sopportare. Al contrario di Doinel, ama ed è amato nella comunità selvaggia della Camargue dove vive, e il suo è un corpo a corpo con la vita e con un padre direttore di orchestra che si palesa per la prima volta.

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Meno convincenti il premio della giuria a Tales di Rakhshan Banietemad e le sue microstorie, che eccedono nel dipingere la pur dura realtà iraniana, spingendo troppo il pedale su vicende estreme di droga, prostituzione, prevaricazione maschile, violenza. Infine il premio della giuria va a Sivas del giovane Kaan Mujdeci, solitudine e povertà turca raccontate attraverso il rapporto di un bambino e un cane da combattimento. Leva di riscatto sociale e spia di un bisogno di amore. E ancora di mezzo c’è lo zampino di un animale…