Scarlett Johansson arriva al lido biondissima e dimagrita rispetto all’aliena un po’ in carne dal caschetto nero che risucchia gli umani in “Under the skin” di Jonathan Glazer, in concorso alla 70esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Un thriller psicologico, più che un film di fantascienza, in cui si indaga sul processo di umanizzazione di Scarlett-aliena più che sulle intenzioni degli extraterrestri riguardo alla terra. Il film inizia con un’inquadratura geometrica – non a caso uno degli autori preferiti del regista britannico è Antonioni – in cui un’iride, quella magnetica di Johansson, viene creata in maniera artificiale. L’attrice americana – che recentemente abbiamo visto nei panni di Janet Leigh in “Hitchcock” di Sasha Gervasi e quelli della Vedova nera di “The Avengers” di Joss Whedon – guida un camioncino con cui adesca le vittime, che, soggiogate dalla sua sensualità, si lasciano annegare in un lago nero dalla consistenza oleosa. Un thriller psicologico girato in Scozia – tra le vittime di Scarlett c’è anche Paul Brannigan, il protagonista di “The Angel’s share” di Ken Loach – che ha diviso la platea, tra fischi e applausi. Subito dopo la proiezione il Sole 24 Ore incontra Glazer, al suo terzo lungometraggio _ il primo era “Sexy Beast – L'ultimo colpo della bestia” (2000) _, visibilmente emozionato dalla prospettiva di essere di nuovo al festival di Venezia, dove nel 2004 aveva già portato “Birth – Io sono Sean” con Nicole Kidman.
Qual è stato lo spunto per il film?
Ho letto il libro di Michel Faber (Sotto la pelle, Einaudi) e sono rimasto affascinato dal personaggio della donna, dalla sua sensualità, dalle tematiche che avrei potuto sviluppare. Per me questo film è stata una grande sfida soprattutto nella ricerca del linguaggio adatto a dare corpo a una storia del genere.
Ha scritto la sceneggiatura pensando a Scarlett Johansson?
No, ma lei era perfetta per il ruolo. Il libro è stata una traccia e la sceneggiatura è cambiata mentre giravamo. Anche Scarlett ha dato i suoi contributi e una forte personalità al suo ruolo. Per lei è stato molto difficile, non era una delle parti tipiche che di solito impersona.
Nelle ultime due pellicole ha scelto due attrici forti e note. Nicole Kidman nel 2004 e oggi Scarlett Johansson.
Sono entrambe due figure importanti, ma non ingombranti, molto professionali e impegnate nella parte. Per me è stato come lavorare con un partner che capiva perfettamente la mia linea. L’umanizzazione dell’aliena è stata una mia volontà. Nel libro la protagonista era una specie di fata, o meglio un mostro. Scarlett ha dato colore magistralmente a tutto il resto.
Come mai darle una connotazione umana?
Non volevo fare un B movie. Volevo rappresentare la nascita di un essere umano dentro un alieno. Le intuizioni, le emozioni nel personaggio nascono a poco a poco. E’ una deriva in crescendo. Scarlett esce dall’indifferenza per la prima volta quando è incuriosita dal pianto disperato di un bambino che rimane abbandonato sulla spiaggia. Non è compassione, ma è già qualcosa rispetto al niente. Poi le capita di cadere sul marciapiede. Quando viene rialzata da alcuni passanti, ha un momento di smarrimento perché la vista è confusa. E’ una sensazione di fragilità.
Nel momento in cui l’alieno assume sembianze umane la scena è completamente bianca, quando porta le vittime alla consunzione lo sfondo è nero…
Non associo il bianco alla nascita e il nero alla morte. E’ qualche cosa che avviene in maniera inconscia. Spesso si discute un’idea e solo in un’analisi successiva le attribuisci un significato.
I corpi delle vittime vengono svuotati e la loro consistenza portata verso un punto indefinito.
La mia intenzione era quella di lasciare un alone di mistero. Di far capire che gli alieni vogliono qualche cosa da noi, ma senza spiegare cosa e soprattutto volevo che la trasformazione dell’alieno fosse solo parziale.
Il film ha diviso la platea. C’è chi ha applaudito e chi ha fischiato
Il cinema è una forma di comunicazione. Certo non mi fa piacere questa incertezza. Preferirei una reazione omogenea, ma comunque è uno stimolo
Ci sono immagini di natura molto intense, pini ondeggianti, la neve che scende…
Le immagini poetiche della natura aumentano man mano che lei si umanizza e ciò accade durante un processo velocissimo, per questo verso la fine si fanno più forti.
Si sente più vicino al cinema americano o europeo?
A quello europeo, ai vostri italiani, Fellini, Antonioni, Pasolini. La forza, la tensione, l’impegno di molti dei film che si fanno oggi non hanno le stesse caratteristiche delle loro opere. I registi di oggi non spingono il cinema quanto hanno saputo farlo gli autori del passato. Comunque dipende: il cinema nasce e muore, in relazioni alle situazioni politiche e al desiderio di indipendenza dei popoli.
Lei ha avuto un passato da montatore della Bbc, di autore di videoclip di noti artisti rock, come Massive Attack, Radiohead, Jamiroquai
Ogni esperienza ha contribuito a portarmi dove sono, ma il desiderio di diventare un regista è nato molto presto.
Il prossimo film?
Devo ancora digerire “Under the skin”. Ora voglio fermarmi, respirare e capire che cosa ho fatto. Solo allora posso pensare ad altro. L’importante è che sia una vera sfida.