Genocidio show: è nelle sale l’impressionante doc di Oppenheimer

The act of killing di Joshua Oppenheimer dovrebbe iniziare dai titoli di coda. Da quella sequela impressionante di "anonymous" – a partire da uno dei due assistenti alla regia -, che si snocciola sullo sfondo nero, si comprende quanto sia ancora intoccabile l’argomento del genocidio avvenuto in Indonesia nel 1965.

 

 

Il titolo, L’atto di uccidere, spiega perfettamente il cuore del documentario. Il trentanovenne regista texano, dal cognome pesante, che immediatamente ci riporta al deadly toy di Sting, si è trovato casualmente, e in un primo tempo in atteggiamento addirittura neghittoso, di fronte a un materiale straordinario: il desiderio dei carnefici di raccontare le tecniche con cui avevano attuato lo sterminio. Nel 1965 il reggente Sukarno era stato detronizzato da Suharto con un colpo di Stato, riuscito grazie al lavoro sporco di uno dei più grandi movimenti paramilitari (oggi conta tre milioni di seguaci), la "Gioventù di Pancasila". Questi "eroi" in tuta mimetica arancione e nera in un anno avevano trucidato un milione di persone, tra intellettuali, contadini, sindacalisti, cittadini appartenenti alla minoranza etnica cinese, accusati di essere comunisti, e in quanto tali, pericolosi per il nuovo Governo e il Presidente che "accudirà" il Paese per 33 anni, fino al 1998 quando fu costretto a ritirarsi. Quindici anni fa, infatti, la stessa comunità internazionale, che aveva coperto fino ad allora Suharto, spinse per instaurare l’attuale Governo, che non piace a Yapto Soerjoseomarno, capo dei Pancasila, intervistato da Oppenheimer. «C’è troppa democrazia, è il caos -, spiega il capitano ghepardato nel documentario durante una partita di golf -. Le cose andavano meglio sotto la dittatura militare. L’economia era migliore e c’era più sicurezza» e concludendo, Yapto ha l’accortezza di gratificare la giovane caddy, sottolineando che, a suo avviso, avrebbe decisamente un neo dove la decenza non vorrebbe.

THE ACT OF KILLING

Soerjoseomarno è uno dei tanti protagonisti di questa versione orientale della Banalità del male, che non ha mai patito la seppur magra consolazione di un processo, come per fortuna è avvento per l’ingegnerizzato e luciferino sterminio nazista, o per la macelleria ruandese e balcanica. «Magari venissi chiamato a L’Aja – esordisce smargiassa davanti al regista una delle comparse sanguinarie –. Sarei famoso». Non vi è il timore di poter essere condannati tra gli assassini, che girano a volto scoperto, taglieggiando i commercianti cinesi al mercato e si definiscono orgogliosamente gangster, cioè «uomini liberi», la cui filosofia di vita è ispirata al motto «relax e Rolex». Sono piuttosto golosi di apparire davanti alla macchina da presa e ai cameramen del più popolare show televisivo indonesiano, dove la bella conduttrice si infervora spiegando che i comunisti venivano liquidati «con più umanità, minor sadismo e maggior velocità».

Oppenheimer diviene motore della spettacolarizzazione di questo coming out, quando nel 2005 decide di trasformare il suo angosciato spaesamento nei confronti dell’orgoglio sterminatore in cui era inciampato per caso, nell’idea per un documentario, The act of killing, appunto. Il regista aveva vissuto per un anno in un villaggio di sopravvissuti al massacro del 1965 in una piantagione fuori Medan, capitale della provincia nel nord di Sumatra, e per tre anni aveva registrato i materiali con cui è stato realizzato The globalization tapes (2003), co-diretto da Christine Cynn, su un nascente sindacato locale di lavoratori e Co-existence (in lavorazione), sul confronto tra una famiglia di sopravvissuti e gli assassini dei loro figli.

Durante le riprese Oppenheimer era stato più volte interrotto, minacciato dalle autorità locali, infine "invitato" al quartier generale, in cui con solerzia i carnefici si erano offerti di scortarlo nei siti degli omicidi di massa, sicuri che le loro prodezze avrebbero acceso l’interesse per un film molto più delle pene dei sopravvissuti. Il protagonista principale si era rivelato da subito Anwar Congo, piccolo bandito di periferia, dedito ad alcol e droga, che dal bagarinaggio nei cinema aveva fatto fulminea carriera come talentuoso killer. Anwar si vantava di aver soppresso più di mille persone, ammettendo con candore di non essere mai stato sicuro del loro orientamento politico, ma di averle eliminate con allegria, a ritmo di cha cha cha. Un manovale brillante, un gagliardo strangolatore, cui l’editore del quotidiano «Medan Post», Ibrahim Sinik, aveva affidato i sospettati anche se non era riuscito a provare la loro fede comunista. Ad accompagnare Anwar in questa epica narrazione, non priva di siparietti musicali e balletti, una compagnia di assassini mattacchioni che si sono prestati a riprodurre le proprie gesta – premurandosi di scriverne anche le sceneggiature – attraverso i generi cinematografici preferiti: dal gangster al western, dall’horror al musical. La pellicola si apre infatti con una fila di ballerine che escono da un pesce gigante e finiscono sotto una cascata davanti a cui Anwar si atteggia a santone.

The act of killing, che nelle intenzioni di Anwar è «un film per famiglie», è un pugno allo stomaco lungo 158 minuti, di cui non ci si riesce a stancare, a ulteriore conferma – dopo il Leone d’oro a Gianfranco Rosi per Sacro GRA– che il documentario è genere tutt’altro che ancillare rispetto alla fiction. Nell’opera di Oppenheimer hanno creduto da subito, diventandone produttori esecutivi, due maestri del genere, Werner Herzog – si pensi a Cave of forgotten dreams sui dipinti rupestri della grotta francese di Chauvet e Into the abyss, storie di detenuti nel braccio della morte (entrambi del 2010) – ed Errol Morris – basti citare The fog of War su Robert McNamara (2003) e il recentissimo The unknown known (2013) su Donald Rumsfeld -.

The act of killing potrebbe essere tacciato di trasformare killer eroinomani in simpatici fenomeni da baraccone, quanto Sacro GRA ha dovuto rispondere alle accuse di aver ridicolizzato i propri protagonisti, Videocracy di Erik Gandini (2009) di aver sparato sulla Croce Rossa accanendosi contro l’aspirante concorrente di reality, Errol Morris di averci fatto diventare simpatico Rumsfeld. Ma il film di Oppehneimer non può dar adito a incertezze: il regista si è limitato a farsi specchio di menti perverse, educate al compiacimento per la violenza e il sopruso, oppure deboli, figlie della bestialità e dell’ignoranza, e, nel solo caso di Anwar, a un certo punto a riflettere un barlume di insopportabile consapevolezza.

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