Bruni Tedeschi, irresistibile perdente

"Un castello in Italia" di Valeria Bruni tedeschi è una commedia in cui si ride con intelligenza

Ecco la mia recensione sul domenicale di oggi

Ci vuole maestria e coraggio a porre una quarantenne piacente, ricca, colta, elegante e snob al centro di una commedia, in cui recita la figura della perdente. Valeria Bruni Tedeschi in Un castello in Italia ci è riuscita, mettendo in gioco se stessa in una farsa autoironica, che con sagacia e lievità affronta temi gravi come la maternità, la morte, l’amore filiale, fraterno e coniugale. Siamo abituati ai loser dei fratelli Coen – a febbraio faremo un altro felice incontro con il cantautore nerd di Inside Llewyn Davis – e agli sventurati, gli impiastri, gli emarginati, gli inconcludenti che costellano la “Commedia all’italiana”. Qui siamo invece all’opposto del lanuginoso anonimato dei balordi de La grande guerra (1959), degli straccioni de L’armata Brancaleone (1966), del piccolo calcolatore de Il vedovo (1959), dello spaccone de Il sorpasso (1962) o dello scalatore sociale de Il medico della mutua (1968).

 

 

Un castello in Italia ha il suo milieu nell’upper class e nell’ambiente artistico italo-francese, ma un tratto in comune con la “Commedia” ce l’ha: i ricchi avranno anche i soldi, ma sono infelici. Figuriamoci se rischiano la bancarotta, come nel caso dei Rossi Levi, cui appartiene Louise (Valeria Bruni Tedeschi), che insieme alla madre (Marisa Borini, mamma della regista anche nella realtà) e al fratello Ludovico (Filippo Timi) vengono convocati d’urgenza da un commercialista di lusso per porre riparo a una situazione finanziaria disastrosa. Così si trovano a contemplare la vendita del castello di Castagneto – il film è girato nell’immobile realmente appartenuto alla famiglia della regista – e di un quadro di Bruegel. Una prospettiva che li addolora, vissuta come una perdita d’identità, aggravata dal fatto che la salute di Ludovico è in serio pericolo per una malattia esiziale.

La regista ha spiegato di essersi ispirata a Il giardino dei ciliegi di Checov per raccontare la fine di un mondo attraverso la saga dei Rossi Levi, anche se in tanti rilevano un autobiografismo spiccato. E’ molto probabile, come per altro accade in diverse opere di colleghi non altrettanto severi con se stessi e in ampie pagine di letteratura, scadente e altissima. Ma perché tormentare con queste questioni un autore che si è esposto con tanto spirito e ferocia verso se stesso al giudizio dello spettatore? Ciascuno tragga dal film le impressioni che vuole. Poco importa se la pellicola sia una sorta di terapia con cui Bruni Tedeschi cerca di emendare i gangli dolorosi della sua vita familiare – come la morte per aids del fratello Virginio, cui l’opera è dedicata – o di esorcizzare il legame amoroso complicato con un uomo, un attore, molto più giovane di lei, molto simile probabilmente alla relazione, ora finita, con Louis Garrel (giocoso e bravissimo coprotagonista), con cui la regista ha adottato una bambina nella vita reale. E ancora, poco interessa se la mancata menzione della sorella Carlà – ex première dame, ex modella, cantante, madre di due figli – sia l’esplicita espunzione di una figura ingombrante. La regista generosamente ha concesso un lauto piatto di congetture a chi ama la chiacchiera da bar; agli altri rimarranno scene di pura genialità comica nella parabola di una donna, che freme udendo il rimbombo del suo orologio biologico, dopo aver smesso di fare l’attrice per «per far posto alla vita nella vita», l’ermeneutica della maieutica insomma, con un problema di coscienza verso il suo patrimonio, per altro in via di estinzione.

Indimenticabile il furore dell’isteria di Louise, quando, in procinto di essere sottoposta a una fecondazione artificiale, cui ha costretto il fidanzato, si trova al polso il braccialetto di un’altra paziente. O la lotta che ingaggiata con le suore di Napoli, che le ostacolano “la seduta” su una poltrona che miracolosamente garantirebbe la gravidanza alle donne, vista la collezione impressionante di peccati mortali da lei inanellati (fede malferma praticata indifferentemente in chiese, moschee, sinagoghe, concubinaggio, procreazione assistita). Situazioni molto vicine al Nanni Moretti di Ecce Bombo (1978), Palombella rossa (1989) e Caro diario (1993).

O ancora è irresistibile la crudeltà con la protagonista dileggia la sua condizione privilegiata: la falsa carità con cui propone di destinare il castello familiare ai bambini poveri o a un centro per drogati; la collera con cui Louise, volontaria a una mensa per indigenti, è aggredita da una clochard, da lei accusata di barare la fila. O l’assoluta indifferenza che prova nei confronti dei domestici, della cui vita non sa nulla. E allo stesso modo è difficile da raggiungere l’equilibrio che dimostra verso l’impietosa piccineria dei dipendenti, quando ricamano leggende sulla figura del nonno, ebreo convertito al cattolicesimo per amore dei soldi e di Hitler.

Forse è fuorviante paragonare Un castello in Italia alla “Commedia all’italiana”, visto che il film ha un sapore e molte ambientazioni francesi (come per altro Ciliegine di Laura Morante) e visto che la regista vive oltralpe dall’età di nove anni, quando il padre vi si era trasferito per paura dei rapimenti. Ma anche se la pellicola è (fortunatamente) lontana dalla volgarità giocata sulla mascolinità, sull’esibizione sessuale che spesso degrada la comicità contemporanea nostrana, è tuttavia pervasa da un’amarezza e mestizia terragna tutta italica, che attraversa le opere di Mario Monicelli, Dino Risi e Luigi Zampa. Una malinconia profonda che affiora nella scena in cui la protagonista gioca con le scarpe del fratello appena scomparso, verso cui provava un sentimento ambiguo, quasi erotico e represso, che ricorda Michael Fassbender e Carey Mulligan in Shame di Steve McQueen. Una pervicacia disperante che traspare nel dolore della madre, ostinata a non veder e i segni della fine imminente sul corpo del figlio e a non accettarne la morte fino ad apparire quasi ridicola.

Valeria Bruni Tedeschi è alla sua terza prova registica, dopo È più facile per un cammello… (2003) e Attrici (2007), pellicole altrettanto in odore di autobiografismo, ed era con questo film in concorso all’ultimo festival di Cannes. Non proprio una banalità. Come attrice ha già dimostrato il suo valore conquistando due David di Donatello per due film diretti da Mimmo Calopresti (La seconda volta, e La parola amore esiste) e ha recitato con Claude Chabrol, Marco Bellocchio, François Ozon e molti altri grandi, non ultimo Philippe Garrel, padre del suo ex compagno.

Un castello in Italia è una commedia godibile, che sfiora il grottesco, con pochi scivoloni, come quando eccede nel paradosso durante il funerale del fratello e nel melodramma con l’ex fidanzato di Louise, Serge, (Xavier Beauvois), figura di cui non si sentiva il bisogno. Ma sono bazzecole di fronte alla capacità di far ridere con intelligenza. Che privilegio raro.