Il nuovo film di Gerwig racconta l’epopea della bambola Mattel alle prese con pensieri di morte e il femminismo solo apparente. Qualche incoerenza
di sceneggiatura non toglie il divertimento e la riflessione sulla contemporaneità
Non so se tutti nella sala piena di ragazzi tra i quindici e i trenta anni abbiano afferrato l’omaggio iniziale di Greta Gerwig nel suo Barbie a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, sostituendo il monolite lucido e nero con la mitica bambola della Mattel. Ma questo non ha nessuna importanza. È miracoloso invece vedere le poltrone fitte di teste e lottare per assicurarsi il biglietto via internet diverse ore prima di una delle quattro proiezioni in lingua originale in un cinema di Milano. Ho scelto di vedere Barbie il terzo giorno dopo l’uscita, ovvero sabato di ormai nove giorni fa in una Milano battuta da Caronte. Il pubblico non era quello depresso del luglio lombardo che si ficca nei cinema per prendersi un poco di refrigerio. Era composto da compagnie di ragazzi che si sbracciavano da lontano per salutarsi, ché non avevano trovato i posti accanto. E il pienone non è rimasto un fenomeno dei primi giorni: Barbie continua a essere in cima alla classifica del Box office ed è il migliore esordio al botteghino del 2023 (a luglio!).
Chi scrive ha un debole per Gerwig: l’ha amata come attrice soprattutto in Frances Ha del 2012, dove era il delizioso eponimo, svagato e maldestro, di una generazione confusa, solo apparentemente inconcludente, nel film diretto da Noah Baumbach, padre dei due figli della regista, nonché cosceneggiatore di Barbie. Gerwig dietro la macchina da presa ha firmato il notevole Lady Bird (2017) e una versione di Piccole donne (2019), dove è riuscita a dire qualcosa di nuovo nella pur abusata trasposizione cinematografica del libro di Louisa May Alcott. Ma torniamo a Barbie. Margot Robbie, nata per interpretare la Bambola Stereotipo – bionda, con gli occhi chiari, fisico curvilineo da schianto –, dopo essersi svegliata sulle note di Pink (divertente e adeguata la colonna sonora con tanto di Dua Lipa e gli Aqua, che lanciarono nel ’97 il tormentone Barbie girl) viene sorpresa da pensieri di morte. La coreografia corale che accompagna il motivo si interrompe di botto (un poco Truman show). Nonostante il suo ravvedimento, la mattina dopo Barbie trova il latte scaduto, la piega dei capelli scombussolata e soprattutto i piedi piatti.
Orrore! Bisogna correre ai ripari: Barbie Stereotipo va in pellegrinaggio da Barbie Stramba, un modello maltrattato da una “giocatrice” esuberante, che le consiglia di andare nel mondo reale per “scastrare” l’inceppo. Fin qui la sceneggiatura tiene grazie a diverse trovate divertenti, come quando Ken-Ryan Goslin propone a Barbie di dormire insieme, ma non sa bene per far cosa. Ci sono poi i balli spassosi, le ottime battute sui luoghi comuni (« Non sono razzista, ho un amico ebreo!»), i costumi filologici e la scoperta che il (presunto e un poco controverso) femminismo di Barbie non ha affatto influenzato gli umani, anzi! «Fascista!» la accusa un ex fan. È poi bella e credibile la commozione della bambola davanti alla sofferenza umana, resa possibile anche dalla bravura di Margot Robbie (indimenticabile in Tonya del 2017). Ci sono però delle riserve. Gli snodi forzati e un poco retorici della trama: su tutti, il motivo macchinoso e debole per cui Barbie viene richiamata nel mondo reale. E alcuni aspetti contraddittori per una che ha fatto la fronda al sistema, seppur nella maniera gentile della sua generazione, girando mumblecore, film a bassissimo budget. Barbie è infatti costato 145 milioni di dollari, necessari per le scenografie, l’impegno calligrafico e le superstar. Poi c’è il legame con la pubblicità. Anzitutto quello con la Mattel, che ha prodotto il film con la Warner Bros. Anche qui la strada era obbligata per la questione dei diritti: o con loro o niente. E bisogna dire che l’azienda si è lasciata lodevolmente prendere per i fondelli. E l’ammicco piuttosto gratuito alla nota marca di un sandalo tedesco, divertente medium antierotico per finire in mezzo ai poveri umani.
Un ultimo appunto l’ho condiviso all’uscita con una quindicenne e un gruppo di ragazze appena maturate (con ottimi voti), una deliziosamente vestita di rosa in omaggio alla protagonista. Quando ho criticato la Gerwig per aver scelto gli attori col manuale Cencelli della distribuzione etnica, mi hanno fatto notare di come sia vetusto guardare al colore della pelle e di come, comunque, sia necessario imporre inizialmente il multiculturalismo perché diventi normalità. E mi hanno dato la chiave giusta di lettura: Barbie è un film sull’affermazione dell’individualità. Ringrazio Gerwig per avermi immesso involontariamente tra questi giovani cosmopoliti, abituati a vedere i film in lingua originale (ridevano quando gli attori finivano di pronunciare la frase, mentre io lo facevo prima perché leggevo i sottotitoli più in fretta).
Il successo di Barbie ci mostra che il cinema non è morto. Quando i giovani fanno film per giovani (e per i “giovani dentro”), in cui commerciale non è sinonimo di demente, le sale si riempiono nel pieno dell’estate e con grande applauso finale.
4 stelle su 5
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