Alice Rohrwacher è sempre più matura del mezzo di cui possiede uno dei talenti più vivi tra i nostri giovani registi. E infatti si permette di usare nuovi linguaggi accanto ai suoi stilemi originali, che l’hanno fatta diventare un’autrice. Ovvero, certa impronta favolistica nel far vestire ai protagonisti, i panni dell’idiota dostoevskijano alla Lazzaro felice (2018); il senso nostalgico dell’infanzia, spesso ferito dalla crudezza della vita, come nel suo bellissimo film d’esordio Corpo celeste (2011); la sacralità del legame con la terra, come ne Le meraviglie (2014), dove i riti agresti sono interrotti dalla spoetizzante contemporaneità. Tutto questo c’è ne La chimera, in concorso a Cannes, epopea, ambientata negli anni Ottanta, di un gruppo di tombaroli delle necropoli etrusche, che vede come protagonista un archeologo britannico, rabdomante di tesori antichi, in cerca non della ricchezza, ma di un pertugio per riallacciarsi al grande amore della sua vita, da cui la sorte lo ha allontanato. In questa storia la regista si concede di omaggiare Fellini , magari anche involontariamente, in un contesto onirico-baracconesco con presenze ultraterrene, legate però alla mitologia (il mostro greco etrusco della Chimera, per esempio). E per la prima volta si diverte a far parlare in camera i personaggi, come se avessero un rapporto diretto con lo spettatore. Questo accrocco invece di spezzare il filo del racconto lo rende ancora più coerente alla sua struttura libera e divertita, irriverente e giocosa anche con la ruvidezza della vita. Particolarmente brava nel casting, Rohrwacher ha scelto per il protagonista Arthur, Josh O’Connor, già giovane re Carlo nella gettonatissima serie The crown, e, accanto a lui, Carol Duarte, protagonista dell’intenso La vita invisibile di Euridice Gusmao di Karim Aïnouz (e il riferimento alla ninfa non è casuale). Rohrwacher è poi bravissima a rilegittimare astri un poco dismessi, come Isabella Rossellini (lo aveva fatto anche con Monica Bellucci ne Le meraviglie), facendoli recitare in ruoli inconsueti, dove a brillare è la loro interpretazione. Cannes ha sempre amato la regista italiana da Corpo celeste, approdato alla Quinzaine des réalisateurs, ai titoli successivi con dignità di concorso, forse per quella sua allergia alle mode e ai giovanilismi (anche di Pietro Marcello) che la rende speciale.
Dell’altro film in gara, Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti, ha già parlato Roberto Escobar (pag. XIV del 23 aprile).
Si può solo aggiungere che la pellicola ha restituito ai suoi fan il vecchio Moretti, perso con Habemus papam (2011) e Tre piani (2022). L’imperturbabile attaccamento del protagonista alla ideologia di sinistra, ha confortato decine di elettori deragliati dal sistema politico, in una maschera grottesca e autoironica. Risate e grandi dibattiti divisivi nella malinconia testamentaria di un film assai godibile, ma dall’impianto piuttosto obsoleto. Ospitarlo in concorso è, ci si immagina, un tributo a un ex Palma d’oro (La stanza del figlio, 2001) ed ex presidente di giuria.
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