Vi rimando all’intervista integrale fatta con Quentin Tarantino in occasione della presentazione del suo ultimo libro Cinema speculation, edito da La Nave di Teseo. Una delle esperienze professionali più belle della mia vita.
Un quarto d’ora prima dell’appuntamento, Quentin Tarantino, il gigante buono del cinema, si presenta. Nonostante ci abbia fatto saltare sulle poltrone con teste esplose, sangue a rubinettate e siringhe piantate nel petto per overdose da eroina, uno che fa morire i nazisti al cinema (Bastardi senza gloria, 2009) e rimanere viva Sharon Tate (C’era una volta a… Hollywood, 2019) non può essere che un uomo giusto. Camicia di cotone blu lasciata aperta sulla t-shirt nera, jeans e sneakers dello stesso colore, si piazza al bancone del bar del Mandarin Oriental di Milano, ma prima saluta Elisabetta Sgarbi (munita di chiodo fucsia stile Kill Bill), che lo ha invitato per presentare il suo Cinema speculation, pubblicato dalla Nave di Teseo, sia in qualità di editore che come ideatrice e direttrice artistica della Milanesiana, giunta alla 24esima edizione, per conferirgli il premio “Omaggio al Maestro”. «I don’t want to be rude, Non voglio essere scortese», si scusa facendosi accompagnare da una risata che deflagra dal petto senza allargare le labbra in un sorriso. Si prende un momento di solitudine, guardando apparentemente nel vuoto e digerendo chissà quali meravigliose immagini che magari vedremo nel suo prossimo, decimo film, The movie critic, ambientato negli anni 70 a Los Angeles su un critico cinematografico, che si annuncia essere l’ultimo. Non vogliamo nemmeno pensarlo.
Quando scatta l’ora prevista ci infiliamo in una bella saletta azzurra con stampe e mobili di Fornasetti con La nave di Teseo in formazione ridotta, ma significativa – Sgarbi, Eugenio Lio, Luigi Scaffidi – e l’interprete, Lidia Zanardi. Sgarbi mostra a Tarantino un libro sulle terracotte degli scultori rinascimentali, Niccolò dell’Arca, Guido Mazzoni e Antonio Begarelli, su cui ha girato un film e lui guarda avido. Lei dice scherzando «Lo puoi anche lasciare in hotel, non lo verrò mai a sapere» e lui risponde vigorosamente che lo porterà con sé. Il trio editoriale della Nave di Teseo annuncia che si tratterà solo alla prima risposta, ma poi rimarranno incollati per tutta l’intervista, perché oltre ad essere tutti fan sfegatati, come chi scrive, Tarantino crea un’atmosfera tale, tra il fiabesco e l’iper-razionale, il faceto e lo scrupoloso, che è impossibile allontanarsi da quella amalgama di acume e cinema che crea. Io, dal canto mio, sono settimane che mi sgranocchio i suoi libri (in Italia ne sono stati pubblicati tre a sua firma da La nave di Teseo, oltre a Cinema speculation, C’era una volta a… Hollywood, 2021, e Pulp fiction, 2023) e riguardo con piacere i suoi film. Mi sono preparata un papiro di una trentina di domande per paura che davanti a uno che per me rientra nella categoria del mito, vincitore di Oscar, Golden Globe e Palme d’oro il cervello si annebbi. Attacco con Cinema Speculation, 30mila copie in pochi giorni, tradotto con grande competenza da Alberto Pezzotta, che mi son bevuto con soddisfazione. Le prime pagine parlano della rivoluzione cinematografica del 1967, in cui si scolpisce una Nuova Hollywood. Mi viene spontaneo chiedergli se ha capito che razza di terremoto hanno creato Le iene e Pulp fiction. «Buona domanda!», esordisce. È proprio un gigante buono, penso. «Non voglio intestarmi meriti che non ho, però questi due film hanno dato il colpo di grazia al cinema esausto degli anni 80 e hanno aperto le porte al nuovo. Ripensandoci, gli anni 90 sono stati la continuazione degli anni 70. Le iene ha aiutato a spalancare le porte a un genere violento e durissimo, per cui ci hanno criticato duramente con frecce e colpi bassi, ma intanto David Fincher ha potuto girare Seven». Voglio continuare a parlare del libro, perché questo tomone di oltre quattrocento pagine, con ricordi della sua mostruosa (e non è un’esagerazione) cultura cinematografica e i film che hanno significato molto nella sua carriera, lo ha scritto proprio lui. Non è la solita chiacchierata registrata e rimaneggiata da un editor. Vorrei capire se gli viene allo stesso modo spontaneo scrivere libri, sceneggiature e girare un film. «Per niente!», esclama serio, battendo la mano sulla foto di copertina in cui lui stesso punta l’indice contro il lettore. «Scrivere è molto più difficile. Anche per i precedenti romanzi, anche se avevo steso la sceneggiatura, ho fatto un’incredibile fatica a renderli in una prosa di cui fossi orgoglioso. Con Cinema speculation è stato ancora più duro, perché era da tredici o forse quindici anni che pensavo di scrivere un libro sul cinema, ma non avevo ancora trovato la mia voce da romanziere. I capitoli su Fuga da Alcatraz e Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! sono i pezzi migliori del libro e li avevo già buttati giù dieci anni fa, ma ho dovuto lavorarci sopra».
Quentin Tarantino, come racconta nel libro, ha infatti cominciato ad andare al cinema a sette anni e tra i primi film che ha visto c’era La guerra del cittadino Joe del 1970, diretto da John G. Avildsen, quello di Karate Kid per intenderci, ma Joe era tutt’altro che una storia da ragazzi. Raccontava di due adulti razzisti che si mettono a far strage di hippy. Qui mi trovo a fare una domanda incongrua, dovuta al fatto che quando si ha a che fare con una lingua che non è la propria si è brutali perché non puoi usare le sfumature. Chiedo se avrebbe portato suo figlio Leo (nato nel 2020), a sette anni, a vedere un film come La guerra del cittadino Joe. Anche se voleva essere l’opposto, la domanda assume un tono moralistico sulla condotta di sua madre e me ne dispiaccio profondamente perché l’infanzia per Tarantino deve essere stata materia non del tutto facile, visto che non ha praticamente conosciuto il padre, l’attore Tony Tarantino, e ha cambiato città diverse volte. Mi rammarico moltissimo ma lui già risponde.
«Probabilmente no, ma bisogna capire la situazione. Mio padre (il marito della mamma, il musicista Curt Zastoupil, n.d.r.), e mia mamma volevano semplicemente andare al cinema e io volevo stare con loro. Non avevano scelto La guerra del cittadino Joe perché volevano che io lo vedessi, tanto che, tornando a casa in auto, mia mamma si era lamentata del fatto che non fosse il film giusto per me, ma era anche sollevata dal fatto che io avessi dormito quasi tutto il tempo. Per cui, tornando alla domanda iniziale, no, non porterei Leo al cinema a vedere il film di John G. Avildsen. Ma non escludo che potrebbe anche capitare che, facendogli vedere un film che ho scelto apposta per lui, assistesse a una scena che non avrei voluto fargli vedere. E aggiungo un post-scriptum -, e quando l’interprete pronuncia la parola latina con la cantilena italiana ride di gusto deliziato dal suono -. Mia mamma era sollevata perché mi ero addormentato nella parte più scabrosa del film. Ma alla fine sono contento di esserci andato perché grazie a questa esperienza ho avito un incipit per il mio libro – e batte forte con una mano sul volume – per cui sono assolutamente felice che mia mamma mi abbia portato perché ha dimostrato di aver fiducia in me, che ho ricambiato con il mio libro». E batte ancora la mano sulla foto di copertina in cui lui stesso punta l’indice contro il lettore.
La guerra del cittadino Joe è stato l’inizio di migliaia di ore vissute davanti al grande schermo, in cui Tarantino ha macinato di tutto dallo spaghetti western al B Movie, all’exploitation, al blaxploitation, al kung fu, al revenge movie. Pellicole che la sua genialità ha frullato in film che sono continui colpi di scena, botte allo stomaco, ilarità incontenibile. Per un periodo ho fortemente creduto che chi fosse cresciuto tra gli anni Settanta e Novanta non potesse che diventare stupido a forza di spazzatura ingurgitata dalla televisione. Tarantino è l’esempio lampante che “Dal letame nascono i fiori”.
Il piccolo Quentin è stato infatti anche un assiduo spettatore del piccolo schermo, affittando cassette nei videonoleggi (in uno vi ha lavorato a lungo). Leggenda vuole che la memoria del regista di Knoxville sia prodigiosa. «Sicuramente, ma ho voluto vedere di nuovo le pellicole per formulare in maniera compiuta il mio giudizio, che avevo già chiaro, ma dovevo capire quali critiche e punti a favore evidenziare».
Mi viene la curiosità di sapere se ha mai cambiato opinione su un film. «Buona domanda. Questa è davvero una buona domanda», commenta. Naturalmente è il gigante ad essere decisamente buono. «Non ho mai cambiato radicalmente idea su un film. Però ora che ho sessant’anni anche di quei titoli che ho difeso tutta la vita e che ho visto sei o sette volte, noto praticamente solo i difetti e sono arrivato al punto che quasi preferisco lasciarli nel ricordo, perché la mia rilettura li penalizza. Ho una filosofia di lavoro che applico a tutto, dalla recitazione (ha studiato all’Actors’ Shelter di Allen Garfield, a Beverly Hills n.d.r.), alla regia e alla scrittura. La prima pietra si mette decidendo il giorno di inizio, mettiamo sia il martedì, e sarà lo stato d’animo in cui ti trovi martedì a spostare il bilancino. Puoi avere una idea forte, una scena ben in mente o aver preso appunti fantastici, ma il risultato sarà anche il frutto di come ti senti quel martedì». Chissà quale “martedì” lo porta a farsi fuori quando ha una parte nei suoi film: «Così torno a girare e non perdo tempo al trucco», ridacchia, e se è in previsione un “martedì” in cui deciderà di cambiare di nuovo il passato. «La mia trilogia della rivisitazione della Storia si è conclusa con Django Unchained, dopo Bastaaardo sensa gloooria» e declama il titolo come se stesse facendo una serenata napoletana. Effettivamente la sua anima è un poco italiana e non solo per il cognome. «Yaaaa», annuisce. E snocciolo nomi che lo fanno gioire: Ennio Morricone, che ha vinto un Oscar per la colonna sonora di The Hateful Eight, Sergio Corbucci, Mario Bava, Carlo Lizzani. In più è noto il suo trasporto per Barbara Bouchet: «Yahhhhh. Barbara, sua maestà la regina del giallo (in italiano n.d.r.). Nel mio film Grindhouse – A prova di morte ho praticamente trasformato Rose McGowan in Barbara Bouchet con la parrucca bionda». Mi stupisce pensare che nei cinema della California, dove vive dall’età di due anni, si proiettassero i crime nostrani. «Sì, e in versione doppiata – assicura –, anche se con titoli diversi. Mi sono subito appassionato e ho stanato un negozio specializzato proprio in film gialli italiani nelle edizioni pubblicate in Grecia e in Cecoslovacchia, doppiati in inglese con sottotitoli in greco e cecoslovacco. Ho un debole per Edwige Fenech, ma Barbara Bouchet è al livello di Pam Grier, la diva del blaxplotation. Quando ho incontrato Pam mi sono inginocchiato, come si fa con i re e le regine».
Con Pam Grier, star dei film d’azione americani degli anni 70, Tarantino realizza un sogno trasformando il suo idolo nella protagonista di Jackie Brown (1997), suo terzo lungometraggio. Tarantino ama infatti raccogliere e scrollare con grazia la polvere che Hollywood lascia cadere sulle sue vecchie glorie quando finiscono al museo delle cere. Uno su tutti, John Travolta che ha messo di nuovo in moto le anche leggermente oversize rispetto a La febbre del sabato sera, facendo rivivere Tony Manero nel ballo iconico di Pulp Fiction con Uma Thurman, altra attrice feticcio. Mi accorgo di aver dimenticato Sergio Leone e il suo «Yeahh» spunta immancabile. «Lioni è il mio regista preferito, quello che mi ha ispirato di più. Lioni ha preso un filone che tutti ritenevano esaurito e lo ha trasformato fino a farne un genere diverso. C’è un prima e un dopo Lioni. Io non ho lasciato un segno profondo come il suo, ma ho creato la mia idea di giallo». Lo spaghetti-western è un po’ ovunque nel personale frullatore di generi tarantiniano, ma due film sono di esplicita ambientazione “lioniana”: Django Unchained (2012) e The Hateful Eight (2015), di cui una versione (indimenticabile) è uscita in pellicola 70mm con schermo dilatato per gustarsi le cavalcate. Uno che ama così tanto la pellicola come vede il digitale, che permette, per esempio, la realizzazione di lunghissimi piani sequenza? «Si possono girare anche con una GoPro, ma se non significano niente a che serve? Bisogna fare fatica, che ci piaccia o meno. Negli anni 60, se avevi bisogno di mille comparse, dovevi gestire mille corpi. Magari se eri disperato, aggiungevi con un manichino e oggi con il digitale puoi infilare sullo schermo quanta gente ti pare. Io però sono d’accordo con Coppola quando dice che in quegli anni se volevi fare un film straordinario, dovevi girare un film straordinario e basta. E così oggi».
L’ultimo capitolo del libro è dedicato a Floyd Ray Wilson, un amico della mamma, gran cinefilo, autore di sceneggiature, cui la mamma di Tarantino aveva affittato per un certo tempo una stanza nella loro casa in modo che desse un occhio al giovane Quentin, che a un certo punto, nell’adolescenza, aveva fatto un po’ di confusione con la scuola. Nel libro Tarantino si rammarica di non averlo ringraziato alla cerimonia degli Oscar nel 2013, dove ha vinto la statuetta per la migliore sceneggiatura originale per Django Unchained. Includerlo nel libro è un modo per farlo a posteriori?
«Sì assolutamente sì, ma questo non migliora la mia posizione. Non è che mi sono dimenticato di ringraziarlo agli Oscar, non è venuto proprio in mente. Non ho preso proprio nulla dalle sue sceneggiature, Django Unchained è tutta farina del mio sacco ed molto lontana dalle sceneggiature di Floyd. È solo scrivendo questo libro e scavando nella mia memoria di quel periodo che ho realizzato il vero significato di quello che mi ha mostrato con la sua sceneggiatura: è stato un esempio. È stato allora che mi sono dispiaciuto di non averlo ringraziato, ho provato rimorso mentre scrivevo fisicamente quelle pagine e non sapevo che sarebbe state le ultime del libro».
Il gigante buono finisce prendendo la mia copia di Cinema speculation e scrivendo una dedica generosa. Allora prendo coraggio e per la prima volta nella mia vita chiedo autografi per amici di cui ho scritto il nome su un foglietto. Lui li legge ed esplode in una delle sue risate interne. Scandisce i nomi mentre li ricopia e aggiunge «With love, con affetto». Se non fosse il geniaccio che è, meriterebbe un Oscar solo per la sua generosità.
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Cristina Battocletti