Scavallate le celebrazioni del centenario, dalla sua Racalmuto Leonardo Sciascia continua a irradiare bagliori di un’epoca, cui siamo culturalmente ancora debitori. Nell’archivio, ottimamente curato dalla Fondazione Sciascia, con la direzione scientifica di Antonio Di Grado, si trovano piccole miniere, di cui solo uno spicchio è esposto nella mostra Sciascia e Pasolini tra i documenti in archivio, fino alla fine di febbraio presso la Fondazione. L’esposizione, curata da Edith Cutaia e dal nipote dell’autore siciliano, lo scrittore Vito Catalano, coniuga il carteggio tra Sciascia e Pasolini ad articoli e documenti che legavano i due intellettuali, nati nello stesso anno, il 1922, e uniti da stima e amicizia, che li portava spesso anche a un aspro confronto su temi caldi come l’aborto.
Dalle centinaia di missive recapitate al “maestro siciliano” da scrittori, filosofi, pensatori ed editori vengono in luce riflessioni, messaggi, scambi di idee: un compendio della “meglio intellighenzia” del Dopoguerra, in cui emergono il civismo di Sciascia, il suo rapporto tra letteratura e verità, i temi della giustizia, della criminalità organizzata e della sua connivenza con gli organi di potere. Informazioni che si ricavano in controluce, dalle risposte dei suoi interlocutori e che, a loro volta, rivelano stature di intellettuali altrettanto incisivi per il nostro Paese. Tra questi, Italo Calvino, il cui epistolario con Sciascia sarà pubblicato in maggio da Mondadori, a cura di Paolo Squillacioti e Mario Barenghi, L’illuminismo mio e tuo, per il centenario dalla nascita dell’autore del Barone rampante (Cuba,15 ottobre 1923) e che il Sole 24 Ore ha potuto spulciare nell’archivio siciliano.
Calvino, oltre a essere il referente privilegiato di Sciascia all’Einaudi, fu uno dei suoi primi ammiratori. Lo aveva notato già nel 1954, come si evince da una lettera all’editore Alberto Carocci, in cui si parla di uno scritto «molto impressionante» d’un maestro di Racalmuto. Leggendo in anteprima i racconti che furono pubblicati nei Gettoni nel 1958 con il titolo Gli zii di Sicilia, Calvino il 2 marzo 1956 scrive a Sciascia: «Da anni punto su di te, ma non mi aspettavo di trovarti narratore, e narratore sicuro come ti dimostri… Bravissimo!». Un giudizio di raro encomio, anticipato da una frase ancora più lusinghiera: «Mi mordevo le mani dalla rabbia di aver perso i tuoi ricordi di scuola». Calvino si riferiva a Le parrocchie di Regalpetra del 1956, una sintesi autobiografica dell’esperienza di educatore. Sciascia lavorò nella scuola del suo paese dal 1949 per gli otto anni successivi. Esiste un’aula in cui tutto è ancora come allora, i banchi con il calamaio e la cartina geografica della Sicilia appesa alla parete, in un clima di nostalgica deferenza che aleggia in tutto il paese, pervaso di epigrafi con frasi tratte dai libri del compaesano, di statue a dimensione reale e di murales che lo ritraggono con l’immancabile sigaretta. Gaspare Spalanca, uno dei suoi allievi, racconta di un maestro “di vita”, che non ha mai usato pene corporali, attento in primo luogo alla salute dei ragazzi, figli di poveri braccianti delle saline e delle zolfatare, in cui Sciascia ambientò i romanzi di mafia. Nell’aula ghiacciata, senza riscaldamento, per prima cosa si informava di chi fosse a digiuno e lo spediva dal bidello a bere una tazza di latte.
Per Calvino l’insegnamento era il cosmo del sistema valoriale sciasciano. Riferendosi ancora alle Parrocchie di Regalpetra scriveva il 27 aprile ’56: «È solo nel capitolo scolastico che superi il dato giornalistico e fai qualcosa che è documento-impressionante e voce tua, drammatica».
Calvino rimanda a Brancati, uno dei pilastri di Sciascia assieme a Pirandello, il cui volto campeggia sulla scrivania dello studio palermitano riprodotto con verosimiglianza alla Fondazione. Il 23 settembre 1960 arriva il noto coronamento: «Letto Il giorno della civetta. Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario, su di un problema, dando una compiuta informazione…», lodando la «vivezza visiva» e la «scrittura sorvegliatissima». Tra i due si sviluppa un dialogo sul rapporto tra la letteratura e la realtà, la memoria, la storia. Mentre Calvino si divide tra il picaresco, il poetico e l’analisi sconsolata del quotidiano, Sciascia è un filologo della verità con Manzoni, Beccaria, Montesquieu, ma soprattutto Voltaire, di cui conservava diversi ritratti, anche nel buen retiro della Noce, una casa costruita negli anni Settanta nella campagna racalmutese in una zona di alberi di noce, accanto a quella ottocentesca del nonno, Leonardo Sciascia Alfieri (cognome che gli permetteva di scherzare sulle sue radici lombarde). La casa cittadina, invece, un piccolo edificio di tre piani con la pietra a vista, non appartiene più agli eredi Sciascia. Qui Leonardo abitò per molti anni assieme alle zie e ai genitori, con la moglie, Maria Andronico, le figlie Anna Maria e Laura, primogenita, nata all’inizio del 1945 e concepita quando erano fidanzati, «ma si preferiva non dirlo», sussurra quasi con tenerezza Vito Catalano, uno dei quattro nipoti di Sciascia, assieme al fratello Fabrizio, regista, e ai cugini Angela e Michele.
Quando si trasferirono a Caltanissetta fu la liberazione dall’asfissiante presenza cupa delle zie: gli Sciascia andavano al cinema ogni giorno, passione che l’autore, sfegatato cinefilo, coltivò sin da bambino al teatro Margherita di Racalmuto, bellissimo di stucchi, palchetti, velluti rossi. «Papà fremeva per non perdere l’inizio del film», racconta Anna Maria, che in omaggio al padre ha scritto Tra Racalmuto e Caltanissetta (Centro documentazione Leonardo Sciascia, 2013) e Il gioco dei padri, Pirandello e Sciascia (Avagliano, 2009). «E siccome mi aiutava a fare i compiti, una volta in cui dovevo scrivere un tema sui premi per la bontà, condensò lo svolgimento in una sola lapidaria frase: “Gesù ha detto: Non sappia la destra cosa fa la sinistra. La bontà non si deve premiare”. Il professore tacque perché capì che l’aveva dettato mio padre». Fu però la Noce il rifugio in cui Sciascia scrisse i suoi capolavori. «Lavorava due ore preziose la mattina, ma si faceva interrompere docilmente da chiunque lo andasse a visitare, non sapeva dire di no -, continua Anna Maria -. Nel ’68 dopo il terremoto del Belice vivemmo felicemente per due mesi a Milano. Frequentavamo Ferdinando Scianna, che era per mio padre il figlio maschio che non ha mai avuto. Ma alla fine decise di trasferirsi a Palermo con il pretesto della nostra istruzione».
Nello studio della Noce in bella vista ci sono la sua Lettera 32 e un Cristo con le braccia alzate nella tradizione protestante. «Qui si liberava, andava a raccogliere fichi e pomodori, cacciava i beccafichi e dava sfogo alla sua più amata passione, la cucina. Preparava squisitezze siciliane: asparagi e rognone, spaghetti con sughi piccanti», rammenta Anna Maria, mentre il marito Antonino, divertito, ricorda: «Una volta mio suocero fece trovare a Pannella, dopo uno dei suoi digiuni, le ’mpignulati, una sfoglia piena di cipolla, salsicce e olive nere». In alcuni ristoranti racalmutesi, come ’Ni Babà, esiste un menù di mare e di terra, dedicato alle raffinatezze culinarie sciasciane: sarde e aragosta, zuppa del contadino, salsiccia, spaghetti con la muddica atturrata, stigghiole, salsicce di interiora. Gustosissime e servite con abbondanza meridionale, mentre Sciascia mangiava con misura. Sorvegliatissimo, come la sua scrittura. Parola di Calvino.
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