L’arte della protesta in corsa agli Oscar: a colloquio con Laura Poitras

La vincitrice del Leone d’oro punta alla seconda
statuetta con il film sulla fotografa e attivista Nan Goldin, una pellicola molto potente in sala tra una settimana, e rivendica parità tra documentario e fiction
«Sarebbe bello che l’Academy togliesse la distinzione tra fiction e documentario: dovremmo concorrere tutti semplicemente nella categoria “miglior film”». Laura Poitras è alla sua terza candidatura agli Oscar, che si decideranno il 12 marzo, con il documentario Tutta la bellezza e il dolore, nelle sale dal 12 al 14 febbraio per I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection. La prima nomination l’ha ricevuta nel 2006 con My Country My Country sull’occupazione militare degli Stati Uniti in Iraq. La seconda volta con Citizenfour (2014), incentrato sullo scandalo spionistico della NSA denunciato da Edward Snowden, si è aggiudicata la statuetta.
È un’annosa diatriba quella tra cinema verità e fiction, che la Mostra del cinema di Venezia ha dimostrato coraggiosamente di voler superare nella scorsa edizione (con il precedente nel 2013 di Sacro Gra di Gianfranco Rosi) premiando la regista americana con il Leone d’oro. «La vittoria a Venezia mi ha reso pazza di gioia. Ho provato una commozione rara e inaspettata – spiega al Sole 24 Ore con genuino trasporto -. Ero già orgogliosa di essere in concorso in un festival bellissimo con film eccezionali come Saint Omer di Alice Diop… Mi è dispiaciuto non vederlo nelle nomination per il miglior film straniero. L’Academy dovrebbe allargare la rosa a dieci titoli, come per i “best film”. Gli Oscar sono un’esperienza incredibile: ti confronti con i tuoi pari, la platea è enorme e aumenta il tuo senso di responsabilità verso le persone che sono il centro del tuo lavoro. Quando sono stata nominata per il film girato in Iraq, gli iracheni non hanno potuto partecipare alla cerimonia: non avevano il visto perché occupavamo il loro Paese». Era il 2006, l’anno in cui il governo americano ha inserito Poitras in una lista segreta di sorveglianza antiterroristica. Per sei anni la regista è stata trattenuta e interrogata ogni volta che usciva o entrava negli Stati Uniti. «Sono stata oggetto di una sorveglianza fisica e non mi sono accorta di nulla.  A posteriori ho pensato ai pedinamenti e alle telecamere con cui mi hanno seguita: mi sono spaventata, ma non sono riusciti a intimidirmi».
I film di Poitras sono incentrati sulle battaglie per il riconoscimento della responsabilità nei casi di abuso di potere (oltre a Snowden, Risk del 2016 su Julian Assange). In Tutta la bellezza e il dolore Poitras segue l’artista e attivista Nan Goldin nella lotta contro la famiglia Sackler – conosciuta per la sua filantropia nel mondo dell’arte e delle università – e proprietaria della Purdue Pharma, produttrice dell’antidolorifico OxyContin, che crea forte dipendenza (di cui è vittima la stessa Goldin) e che ha causato la morte di circa mezzo milione di americani per overdose.
Nel film si incrociano molti percorsi: oltre alle azioni di P.A.I.N. (Prescription Addiction Intervention Now), movimento fondato da Goldin per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla prevenzione della dipendenza da oppioidi, viene in rilievo tridimensionale la vita dell’artista: «Nan si meritava un racconto epico: la sua esistenza è un’opera in sé. Abbiamo iniziato a lavorare nel 2019, ci conoscevamo già per Citizenfour e nutrivamo stima reciproca e questo è fondamentale per confrontarsi con la fortissima personalità di Nan. Spesso le interviste avvenivano a telecamere spente con il solo audio. Soprattutto quando abbiamo affrontato il suicidio di Barbara, la sorella adolescente di Nan».
In famiglia la morte di Barbara era stata catalogata come un incidente e l’opacità dei fatti ha disturbato profondamente la crescita dell’artista.  «Nascondere le cose, uccide le persone» dice a un certo punto Goldin e questo è forse il nodo focale della sua rabbia che ha trasformato in arte e in strumento di lotta contro lo stigma della vergogna. «Con questo film cerchiamo di rovesciare la prospettiva: la vergogna deve ricadere sui Sackler», – puntualizza Poitras. Ma non manca il messaggio positivo: «La straordinaria potenza dell’arte che salva le vite», sottolinea Poitras. Molto infatti è raccontato attraverso le fotografie rivoluzionarie di Nan Goldin nell’universo underground newyorkese degli anni Settanta e Ottanta, intrecciate alle riprese degli act up di P.A.I.N.
Il titolo del film è arrivato all’ultimo, leggendo i documenti dei medici sul test di Rorschach, cui era stata sottoposta Barbara poco prima di togliersi la vita. Di fronte al disegno la ragazza aveva detto: «Vedo il futuro e tutta la bellezza e il dolore». Una sintesi perfetta del film.
EastSideStories
Cristina Battocletti