Fino all’ultimo le mani di Boris Pahor sono state forti, vitali e tenaci, una specie di compendio delle sue doti più straordinarie. Dire questo non sminuisce la sua repentina intelligenza, la qualità letteraria dei suoi romanzi, la sua ironia che si basava soprattutto sui giochi di parole. Fu infatti grazie alla versatilità per le lingue, romanze e slave, che sopravvisse nei lager dove fu deportato dal febbraio del 1944 al 15 aprile 1944. Capace di comunicare con i prigionieri dell’Est, fu scelto come Pfleger, aiuto infermiere a Natzweiler-Struthof, uno dei cinque campi di concentramento in cui fu internato. Così si sottrasse ai lavori forzati.
Lo aiutò dunque a salvarsi la lingua materna, lo sloveno, e la nascita, il 26 agosto del 1913, a Trieste sotto l’impero austroungarico, dove imparò a parlare l’italiano e il tedesco. Per questo era preciso con le parole, esattissimo, alla Hemingway, il suo mito assieme a Camus, non un aggettivo in più, non una frase furba nei suoi numerosi romanzi di natura autobiografica, il cui protagonista era spesso il suo alter ego, Ratko Suban (Qui è proibito parlare, Il rogo nel porto, La città nel golfo, La villa sul lago, Dentro il labirinto, Oscuramento). Coriaceo, provocatore e un poco spericolato, era allergico ai minuetti letterari perché il suo obiettivo era documentare la persecuzione e il genocidio del popolo sloveno. Solo quando scriveva d’amore (era un passionale), si permetteva un fraseggio più fiorito, quasi ottocentesco. Ma l’interesse fondamentale era testimoniare (Tre volte no, Triangoli rossi), per cui non si dispiacque mai troppo di non aver vinto il Nobel per la letteratura, cui era stato candidato più volte. A sei anni, il 13 luglio 1920, aveva assistito all’incendio da parte degli squadristi del Narodni Dom, la casa della cultura slovena. Nella Trieste terreno di allenamento dello sciovinismo, gli sloveni dovevano sparire: non parlare la loro lingua da “cimici”, non avere più circoli sportivi o culturali, banche, giornali. Il piccolo Boris a questa imposizione si ribellò con tutto se stesso e fu solo la prima delle sue manifestazioni di contrarietà all’assolutismo. Da ottimo studente nelle scuole slovene divenne un pessimo allievo in quelle italiane, il padre perse il lavoro e caddero in povertà.
Partì poi soldato in Libia a combattere per una terra, l’Italia, che non era la sua, di cui però amò sempre la letteratura, su tutti Dante e Foscolo. Quando tornò a casa dopo l’armistizio, fu catturato dalla Gestapo per la sua attività nella Resistenza slovena. Attraversò come triangolo rosso, ovvero come prigioniero politico, cinque campi di concentramento. Su quell’esperienza scrisse uno dei racconti più vividi del mondo concentrazionario, Necropoli, diventato bestseller grazie a Fazi nel 2008, che gli ha dato il successo a 95 anni. Una narrazione sulla sofferenza, il coraggio, la follia, l’istinto di sopravvivenza, attraverso il ritorno vent’anni dopo nel lager tra i turisti. Ciò che più lo amareggiava era la grande delusione di aver trovato dopo la guerra un mondo infastidito dai racconti dei superstiti, afflizione che condivideva con Imre Ketrtész e Stéphane Hessel. Il libro che amava di più però è stato Primavera difficile sulla sua storia d’amore con Arlette, un’infermiera che aveva conosciuto in sanatorio in Francia, dove guarì dalla tubercolosi contratta nel lager.
Ci conoscemmo nel 2004 quando, facendo la rassegna stampa a Radio 24, vidi su «Le monde» un articolo a cinque colonne in cui veniva paragonato a Heinrich Böll. Decisi subito di andare a Trieste a intervistarlo e poiché sbagliando strada arrivai in ritardo, aspettò serafico che mi sedessi al caffè Tommaseo, dove avevamo appuntamento, per calzare subito dopo l’inseparabile coppola e indossare l’impermeabile beige tendendomi la mano. «Lei è venuta per Magris e mi mette all’ultimo posto». Mi annunciò che avrebbe preso l’autobus (taxi mai fino all’ultimo, che spreco!) per tornare nella sua Prosecco, sulle alture più belle della città. Faticai moltissimo a fargli cambiare idea, ma da allora il rapporto non si interruppe mai e si intensificò durante la scrittura delle sue memorie in Figlio di nessuno. «Tu sei il mio specchio: io sloveno lascio a te italiana la mia memoria per la fratellanza dei due popoli divisi».
Non era solo miele, spesso mi bacchettava moltissimo anche per cose che non avevo né fatto, né detto, né pensato. Aveva delle durezze notevoli e una diffidenza suprema, ma era capace di altrettanta tenerezza ed empatia, che esprimeva con frasi bizzarre come «Perché quella voce? Ti ha colpito la camorra?». Spesso l’incipit dei nostri incontri era la sua sorniona domanda: «Ma tu sai cos’è il fascismo?». Era ossessionato dal non perpetrare abbastanza l’orrore contro i regimi totalitaristi, Tito incluso. Era a Lille quando seppe che l’esercito iugoslavo aveva occupato Trieste nel 1945 e gli venne un attacco di panico, perché lui, da cristiano sociale, aveva paura dei comunisti. Per anni non poté entrare in Iugoslavia, perché nella rivista «Zaliv», il Golfo, che redigeva a sue spese con la moglie Radoslava Premrl, attraverso la voce di Edvard Kocbek denunciò la strage dei domobranci, i collaborazionisti sloveni, perpetrata dai titini nel maggio ’45. Condannava con forza le «esecrabili foibe», ma insisteva perché venisse riconosciuta allo stesso modo l’oppressione del suo popolo. Non era nazionalista, lottava per i diritti della sua minoranza, per questo insegnò tutta la vita l’italiano nelle scuole, ma scrisse esclusivamente in sloveno.
Nel 2019 decise di affidarmi il suo testamento civile a favore delle donne, che ha sempre sostenuto, contro il capitalismo e il consumismo sfrenato. Sono piena di oggetti che non riusciva a buttare, dalle sigarette alle agendine in pelle, e si adirava moltissimo se riceveva un regalo costoso perché il denaro andava speso meglio. Sognava un consesso di poeti, scienziati, scrittori che avrebbero dato una soluzione allo squilibrio delle ricchezze nel mondo. Negli ultimi tempi i fantasmi del lager lo venivano a cogliere, inveiva contro di loro, ormai cieco e allettato ma tenuto magnificamente in forma dai figli Maja e Adrjian e dalla sua “assistente” bosniaca Vera Radić. Quando stava bene voleva un caffè zuccheratissimo e faceva il suo brindisi. «Alla salute, alla libertà, alla democrazia, alla pace, all’accordo fra le nazioni. All’Europa!». Na zdravje, professor, salute professore!
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