Filmmaker, per vedere altri mondi. L’incredibile testimonianza di una profuga e del suo naufragio

Nove secondi di schermo nero. Una voce fuori campo pronuncia frasi semplici: «È una bella giornata. Il sole splende. Il mare è di un blu intenso», poi si vede un cielo rovesciato, il mare obliquo, molti giubbotti arancioni e grida acute. È il polso di Amel Alzakout a mostrarci queste immagini: su di esso una ragazza siriana di 27 anni, di cui non si vedrà mai il volto, ha montato una piccola telecamera per documentare il suo viaggio clandestino dalla Siria a Lesbo. Per la maggior parte del tempo la telecamera rimarrà sott’acqua a registrare il rumore attutito dei fischietti in cui soffiano per attirare i soccorsi gli uomini e le donne finiti in mare da uno dei barconi della speranza. La regista-naufraga rimane in mare quattro ore al largo della costa turca, ma agli spettatori di Purple sea, film realizzato da Alzakout con Khaled Abdulwahed, sono destinati solo sessanta minuti di quella lotta in un mare diventato improvvisamente viola. Mentre jeans di tutte le fogge sgambettano nell’acqua azzurra, lembi di cappotti si accavallano e la pelle delle dita diviene man mano più raggrinzita, Alzakout racconta i prodromi di questo lunghissimo bagno coatto, avvenuto nel 2015. La regista è sopravvissuta assieme ad altre 273 persone, mentre 42 persone sono annegate. Non c’è niente di tragico in questo suo resoconto: l’addio alla famiglia e le tappe dell’esodo sembrano lemmi poetici. Non recrimina, d’un tratto solo ribadisce che lei ha amato sempre e solo la montagna. Ma poi racconta che la blusa nera su cui sono stampate farfalle colorate, che appare costantemente nell’inquadratura, appartiene a una donna che non sa più se la figlia che ha tra le braccia sia viva o morta. È la calma terribile dell’impotenza, della nostra finitudine. “Vivo, necessario, unico”, questo si dice di un libro quando è buono. Questo si può e deve dire di Purple sea, senza dargli nessuna definizione di genere.

Purple sea

Purple sea


Tra le tante originali storie narrate da Filmmaker c’è Makongo di Elvis Sabin Ngaïbino, uno dei pochissimi registi della Repubblica Centrafricana, che ha seguito Albert e André, due pigmei Aka della foresta pluviale, i paria dell’Africa. Unici studenti di una vasta comunità, raccolgono e vendono il makongo, un bruco che essiccato è una prelibatezza, per mantenersi agli studi e cercare fondi per iscrivere regolarmente a scuola i piccoli del villaggio. Forse perché la sua macchina da presa è quasi invisibile ai pigmei, Ngaïbino riesce a riprendere anche il funerale di un neonato in tutta la sua nuda, disarmante verità. Una coperta, un musino quasi animalesco e i bimbi attorno disperati. Lacrime ineluttabili come quelle di chi non viene estratto a sorte per la scuola (non ci sono abbastanza soldi per pagare la retta a tutti). I piccoli sanno in quel momento che il loro destino è già segnato.
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