Addio a Kim Ki-duk che cambiò il cinema sudcoreano

È morto a 59 anni per il Covid il regista che vinse il Leone d’oro con «Pietà» e che stregò le platee con pellicole violente e tenere come «Ferro 3»

Il regista Kim Ki-duk è morto inaspettatamente, lasciando attoniti migliaia di fan, con un coup de théâtre, proprio come in uno dei suoi film estremi, che avevano portato una ventata nuova al cinema del suo Paese, la Corea del Sud.

Avrebbe compiuto 60 anni il 20 dicembre e invece è scomparso l’11 dicembre in Lettonia, in seguito a complicazioni legate al Covid-19. Sempre in giro per il mondo, grazie alla sua attività cinematografica iper prolifica, era arrivato nella località marina di Jurmala, dove voleva acquistare una casa, il 20 novembre, ma poi aveva perso completamente i contatti con il suo entourage.

Il regista, attore, sceneggiatore e produttore cinematografico era stato premiato con il Leone d’oro e il Leone d’argento alla Mostra del cinema Venezia e con un importante riconoscimento a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Tra i film che gli hanno dato la fama internazionale, L’isola e Ferro 3.


Nato da una famiglia di umili origini nella provincia, si trasferisce a nove anni a Seul, dove frequenta un istituto agrario, per poi impiegarsi come operaio e infine nell’esercito, nella marina. Un’esperienza, quella militare, che riporterà nel cinema, almeno nei suoi aspetti più truci.

A trent’anni emigra a Parigi, dove viene folgorato dal rapporto con la pittura, in omaggio della quale nel 1993, da assoluto autodidatta, scrive la sua prima sceneggiatura, Un pittore e un criminale condannato a morte, che gli apre le porte al mondo del cinema con il premio dell’Educational Institute of Screenwriting.

Il rapporto con le arti visive è importantissimo, tanto che il suo Pietà del 2012, con cui vince il Leone d’oro alla 69esima Mostra del cinema di Venezia, è ispirato proprio dalla statua michelangiolesca da cui il regista coreano viene stregato in una delle sue visite al Vaticano. Quell’abbraccio amoroso tra la madre e il figlio crocifisso significano per Kim Ki-duk una tensione ideale verso la gente oggi oppressa dalla crisi generata dal capitalismo esasperato. Così è nata “Pietà”, storia di un giovane malvivente, Kang-do (Lee Jung-jin), che riscuote, per conto di uno strozzino, debiti a piccoli artigiani, proprietari di officine meccaniche in estinzione, soffocate dai colossi industriali.
Si tratta di cifre ridicole, che però lievitano a causa di interessi esorbitanti, diventando così impossibile il rimborso. Kang-do mira a questo per poter storpiare gli indebitati e ritirare così i soldi dell’assicurazione.

Il protagonista è un trentenne brutale, l’incarnazione del diavolo, che infierisce sulle vittime con ferocia indifferente alle loro pene e alle loro miserie. Fa lo stesso con la sedicente madre che d’un tratto si palesa, dopo averlo abbandonato da piccolo. Nel protagonista vi è una completa rivolta, una riflessione sul potere del denaro, che lo sottopone a un calvario concluso con la più efferata delle vendette: la sottrazione della donna che crede sua madre.

Pietà è il condensato di tutti i temi presenti nella cinematografia del regista coreano, compresa la forte crisi religiosa, avuta da ragazzo e la sua estrema voglia di sperimentalismo, che influenza poi gli esponenti della new wave coreana, come Park Chan-wook, autore del film di culto Old Boy (2003); o Bong Joon-ho, che con Parasite nel 2019 sbanca Cannes e gli Oscar, condividendo con Kim Ki-duk la durezza nel rappresentare la lotta di classe.

La pulsione primigenia di Kim Ki-duk è quella di portare il suo credo attraverso il cinema al maggior pubblico possibile. Per questo i tempi di ripresa sono stringatissimi, di solito non superano mai il mese. Da Coccodrillo, film di esordio del 1996 che racconta la vicenda di un uomo-avvoltoio che vive sotto un ponte, aspettando i suicidi per depredare i cadaveri, passa l’anno dopo a Wild Animals (1997), in cui il sesso è uno strumento non più di mercificazione ma di comunicazione. Ma è L’isola (2000) che lo consacra al successo, alla Mostra del cinema di Venezia in cui illustra un rapporto sadico tra un duplice omicida e una ragazza che affitta casette, come alcova per incontri erotici.

Nelle sale italiane arriva con Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, presentato a Locarno nel 2003 che è campione di incassi al botteghino per essere un film d’autore, ambientato in un eremo buddhista al centro di un lago in una foresta incontaminata, al cui centro c’è la vita del monaco. Nel 2004 arriva a Berlino con La samaritana, dove si aggiudica l’Orso d’argento per il miglior regista, ancora con un rapporto di sadismo tra una prostituta e un suo cliente.
Ma il film che davvero lo consacra al grande pubblico è Ferro 3 – La casa vuota, con cui nello stesso anno vince il Leone d’argento – Premio speciale per la regia alla 61ª Mostra di Venezia: storia di amore, di brutalità, torture, tenerezza, illusionismo e sparizioni, sul filo rosso dell’illegalità.

Tensioni sociali e iniquità, marginalità, violenza, sentimenti forti sono i temi delle pellicole di Kim Ki-duk, che concepisce, accanto a film più posati, opere più “sporche” ma piene di materia scespiriana, anche con budget minimi. Lui scende in strada a filmare le pulsioni del suo tempo, poco importa se finisce nei concorsi o nelle sezioni collaterali dei principali festival. Sempre con il sorriso sulle labbra, con la sua coda di cavallo per trattenere i capelli lunghi e mai, in nessun momento, una punta benché minima di sussiego. Da vero operaio del cinema quale si considerava.