Sarebbero potuti essere fratelli William Morris e Mariano Fortuny anche se li dividevano quasi quarant’anni di differenza: il primo era nato nel 1834 e il secondo nel 1871. I tratti regolari incorniciati dalla barba, la chioma riccia, il naso dritto, entrambi avevano occhi lunghi, accesi di sofferenza l’uno, malinconici l’altro. Si somigliavano fisicamente, ma soprattutto per indole, nella tensione continua a ricreare, studiando le forme del passato, nei tessuti, nei dipinti, nelle storie scritte e nelle scenografie fantasie in cui la natura appare in una dimensione onirica, potente e seduttiva.
Sicuramente come fratelli li ha pensati Antonia S. Byatt nel prezioso libro Pavone e rampicante che descrive e accosta lo scrittore e artigiano inglese Morris, uno dei padri del design, fondatore del movimento Arts and Crafts, e lo spagnolo, naturalizzato italiano, Fortuny, pittore, fotografo, stilista, inventore della sciarpa Knossos e dell’abito plissettato Delphos, indossati da Isadora Duncan ed Eleonora Duse.
«Domenica» ha visto nascere questa felice opera, di cui ha ospitato nel 2014 le suggestioni prima ancora che si trasformassero in un libro. Tre anni prima, nell’aprile 2011, il Sole 24 Ore aveva incontrato Byatt a Venezia dove era giunta per la rassegna “Incroci di civiltà” e dove aveva cominciato a sperimentare quella sottile sospensione ipnotica che l’aveva portata a varcare il palazzo Fortuny e a pensare a Morris in un continuo rimando sensoriale. «Ubriaca di luce acquamarina… eterea, che gioca con le scure superfici mobili dei canali», la scrittrice chiudeva gli occhi e si trovava a pensare a «un verde molto più inglese… molto più giallo, fatto della luce che brillava sui prati rasati».
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Un parallelo tra personalità e realizzazione dell’ingegno che nel libro si trasforma in competizione tra descrizioni e immagini. Byatt parla di intrecci di foglie e melagrane e appaiono la carta da parati con frutti del 1864 di Morris e la mantella con le melagrane, circoscritte in medaglioni circolari, disegnata da Fortuny.
Quando l’autrice descrive draghi e volatili fantastici con becchi e zampe insidiosi, spuntano il tessuto con uccelli, realizzato dopo il 1909 dalla manifattura Fortuny, conservato al Palazzo Pesaro Orfei di Venezia, e quello con pavoni e draghi del 1878 di Morris, ora alla William Morris Gallery. E così la fantasia del lettore trova soddisfazione nelle fotografie di molti degli elementi che ricorrono nei disegni: fenici e pavoni, uccelli fatidici di morte e resurrezione, corolle di fiori, rampicanti, volatili con le ali trattenute, ricami di piante e di pensieri.
In Morris gli elementi a volte sono “imprigionati” in gabbie geometriche dove ricorre un ordine che, secondo l’artista, la natura non ha e che «diviene un muro contro la vaghezza e una porta per l’immaginazione». Dalle pagine guizzano, come una pinna di balena dall’acqua, i cascami che vestivano le donne di Fortuny, custodendo il loro corpo come crisalidi. Il susseguirsi di immagini e descrizioni fa parte della sfida che Byatt ingaggia con la parola.
Anche lei, sorella ideale di Morris e Fortuny, discendente da una famiglia di vasai, è innamorata e studiosa delle tecniche dei maestri vetrai, degli artigiani di porcellane (Il libro dei bambini, uscito in Italia nel 2010, vede come protagonisti un gruppo di ceramisti), ma rivendica da sempre il primato della letteratura sulle altre arti, la superiorità del ritratto creato a parole sul dipinto, come spiega in Ritratti in letteratura (Archinto, 2004).
Indifferente alle grida delle mode culturali, nel 1990 Byatt aveva vinto il Booker Prize per Possessione. Una storia romantica, uscito per Einaudi nel 1992, in cui due accademici contemporanei si mettono sulle tracce di una storia d’amore tra due letterati vittoriani tra il 1858 e il 1860. È l’epoca in cui Morris era ragazzo; Fortuny sarebbe nato dieci anni dopo. Le loro esistenze si sovrappongono, senza toccarsi, per tre decenni scarsi. Morris nasce da una famiglia borghese inglese, arricchitasi grazie alle miniere di stagno. Fortuny, citato da Proust nella Recherche, da un casato mediterraneo aristocratico di pittori, architetti e critici. Entrambi erano attratti dalle saghe e dalle leggende del Nord, anche se Morris non poteva tollerare il Wagner e il Sigfrido, modelli per Fortuny; preferiva l’Islanda con i suoi ghiacci, in cui aveva compiuto due spedizioni e a cui aveva dedicato versi appassionati: E neri declinano i fianchi dei colli, striati in basso di verde desolato:/E una cima si innalza a ovest/dall’incontro di nuvole e mare… La terra dei ghiacci era per lui una fuga dalla sua casa infestata dai “proci”: Dante Gabriel Rossetti, che dipingeva e amava, ricambiato, la moglie di Morris, la modella Jane Burden – «medievale, scura e silenziosa», come ebbe a dire di lei Henry James -, e il pittore Edward Bourne-Jones, che dileggiava con feroci vignette Morris, disegnato come un obeso, sottomesso dalla consorte. Morris trovò nella natura la fonte di ispirazione per la sua arte, mentre Fortuny la cercava nelle donne, grazie anche al felice matrimonio con Henrietta. Per vivere con lei comprò il palazzo Pesaro degli Orfei, visto che la madre, anche lei veneziana adottiva, non accettava il fatto che Henrietta fosse divorziata. Quel palazzo suggellò una lunga unione di affetti e di lavoro tra i due nel loro enorme laboratorio studio.
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Antonia S. Byatt, Pavone e rampicante, traduzione di Anna Nadotti e Fausto Galluzzi, Einaudi, Torino, pagg. 184, € 32