Di Cristina Battocletti
Gli Sherpa nepalesi (o meglio chi li interpreta) sul tappeto rosso di Venezia, tra Sergio Mattarella, Dario Franceschini, Josh Brolin, Emily Watson, Jake Gyllenhaal e il cast di Everest di Baltasar Kormákur, film inaugurale della 72esima edizione della Mostra del cinema di Venezia. Il Lido è abituato a ben altro – memorabile fu l’invasione coloratissima della delegazione indiana quando vinse Monsoon Wedding di Mira Nair nel 2001 -, ma è stato comunque un passaggio d’effetto.
Poi il consesso, accolto dai padroni di casa, Paolo Baratta e Alberto Barbera, si è munito di occhialini in 3D per vedere sullo schermo la storia raccontata dal giornalista Jon Krakauer in Aria sottile (Into Thin Air) sulla spedizione sfortunata che nel 1996 cercò di raggiungere la cima più alta del mondo. Krakauer (nel film Michael Kelly) partecipò all’impresa come reporter della rivista “Outside” e vide morire, a causa di una bufera improvvisa, sei dei suoi compagni di cordata. Tra questi le due esperte guide alpine, il prudente neozelandese, dell’Adventure Consultants, Rob Hall (Jason Clarke), e Scott Fischer, (Jake Gyllenhaal, il cui passaggio sul red carpet ha strappato notevoli urla di ragazzine), leader della più spigliata “agenzia alpinistica” concorrente, Mountain Madness di Seattle. L’epilogo e la vicenda sono noti, per cui il regista non indugia, decide di infilare infausti presagi già nell’occhiata che Keira Knightley, incinta, nei panni della moglie di Rob Hall, allunga al marito all’aeroporto.
Scelta legittima: il punto del film infatti non è tanto focalizzare i meccanismi della disgrazia a quota 8mila, nonostante i capi cordata fossero bene a conoscenza delle insidie della Grande Montagna. Tra l’altro, non è stata nemmeno la tragedia più efferata sulle nevi perenni in cui siano stati coinvolti scalatori, nonostante i trailer lo sbandierino a voce bassa e con toni truci. Sulle cime del Caucaso ne morirono 12 nel 2006 e 24 sul massiccio dell’Annapurna nella catena dell’Himalaya nell’ottobre 2014. Senza contare la strage a seguito del terremoto in Nepal dello scorso aprile.
Ma la vera domanda è perché si permette che individui assolutamente inadeguati psicologicamente e fisicamente alle fatiche dell’alta quota si imbarchino in imprese assurde dietro il pagamento di cifre altissime. E che questo consenta all’Everest di essere trasformato in un centro commerciale pseudo-spirituale per gente che combatte contro se stessa. E la pellicola mette bene in luce questo aspetto, in un campo base ridotto a un campeggio internazionale, con delimitazioni e discoteca in tenda. È per questo, in fondo, che il 3D ha poca importanza, anche perché gli effetti speciali non puntano tanto sulla tridimensionalità quanto sui colori e la forza degli eventi. La tempesta nera che colpisce il gruppo e oscura la mattina come fosse la fine del mondo trascina anche lo spettatore dentro quell’incubo. Così come i principi di congelamento o la mancanza di respiro coinvolgono chiunque li abbia provati in scala ridottissima, nell’ordine del millesimo, affrontando una vetta a piedi. Jason Clarke ha annunciato di aver rischiato il congelamento, affermazione che assume un improbabile tono propagandistico, visto che le riprese sono state fatte sulle Dolomiti – con i mal di pancia di Messner –, negli Studi di Cinecittà a Roma, ed ai Pinewood Studios nel Regno Unito. Sull’Everest sono state girate solo quelle panoramiche.
La musica spinge a man bassa sul sentimentalismo, i dialoghi son spicci, il ritmo da kolossal, ma l’essenza della montagna c’è. Anche se il regista dice di non essersi confrontato mai con nessuna cima, forse ha dalla sua il fatto di conoscere lo spirito ribelle dei cambiamenti climatici repentini, venendo da una terra come l’Islanda, in cui l’imprimatur della Natura è sovrano. Si soffre quando le scale ondeggiano sui crepacci o non ci sono le corde su cui agganciare il moschettone, o quando uno dei più deboli del gruppo, Beck Weathers (Josh Brolin), traballa incerto sui suoi passi per la fatica. «Perché vuole scalare l’Everest? Perché è lì », diceva George Mallory, l’alpinista inglese che nel secolo scorso fece parte di tre spedizioni sull’Everest. Sembra questo il tratto che domina questi avventurieri.
Maurizio Gallo, guida alpina di Padova – responsabile tecnico di alcuni progetti sull’Everest, membro del comitato EVK2 CNR, che gestisce la piramide-laboratorio al campo base della vetta pachistana – in sala non si è commosso, ma è rimasto coinvolto. Soprattutto per la compassione che Rob Hall ha nei confronti dei suoi clienti, delle scelte che si fanno, non per ottenere risultati personali, ma per salvare vite o far raggiungere sogni. Hall infatti non tornerà vivo per far toccare la cima al postino Doug Hansen (John Hawkes), che ci aveva provato già altre due volte. Per Gallo non è credibile l’abbigliamento: le scarpe che risalgono a decadi prima, la maschera da sci, l’uso di semplici guanti in pile (impensabile!). E poco verosimile il ruolo marginale degli Sherpa che invece sono rispettati, decidono quasi ogni cosa e hanno il controllo totale delle spedizioni. Oggi forse sul tappeto rosso del Lido si sono presi la rivincita sul minimalismo di Kormákur.