Venezia 72: quattro italiani per il Leone. Stasera l’inaugurazione con Mattarella. Omaggio a Welles e Monicelli

Due grandi centenari sorvegliano la 72esima Mostra del cinema di Venezia. Orson Welles e Mario Monicelli, entrambi nati nel 1915. Di Welles ieri sera sono stati proiettati in preapertura due opere lagunari: Il mercante di Venezia, restaurato da Cinemazero con la ritrovata partitura musicale originale di Lavagnino, e la versione lunga di Otello, rimessa a nuovo dalla Cineteca nazionale. Al padre de I soliti ignoti è dedicata, invece, al Casinò del Lido l’installazione Fantasmi di Chiara Rapaccini, in arte RAP, compagna del regista romano.
Ma l’inaugurazione della più anziana tra le rassegne cinematografiche di peso (Cannes arriva a 69, Berlino 65) è questa sera con Everest di Baltasar Kormákur, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il ministro della Cultura Dario Franceschini, il presidente della Biennale, Paolo Baratta, il direttore della Mostra, Alberto Barbera, la madrina della kermesse, Elisa Sednaoui e parte del cast del kolossal di Everest: Josh Brolin, Jake Gyllenhaal ed Emily Watson.


Venezia, che spesso era stata accusata di sottovalutare lo star system in favore dell’autorialità, quest’anno dovrebbe passare indenne dalle critiche almeno sotto questo profilo. Nei giorni successivi dovrebbe arrivare (il condizionale è d’obbligo) Johnny Depp, che recita (quasi irriconoscibile sotto il trucco) in Black Mass di Scott Cooper. Un Depp forse più malinconico, dopo la scomparsa di ieri del maestro horror Wes Craven, che lo aveva lanciato in Nightmare. Pronto il tappeto rosso anche per Dakota Johnson, diretta da Luca Guadagnino in A bigger splash (uno dei quattro italiani in concorso), Juliette Binoche, protagonista de L’attesa di Piero Messina, esordiente in competizione;

Kristen Stewart per Equals di Drake Doremus, Robert Pattinson e Bérénice Bejo in The Childhood of a Leader di Brady Corbet, tratto da un racconto di Jean-Paul Sartre. Assai pericoloso per il bravissimo Pattinsons (eternamente condannato ad essere un vampiro e l’ex fidanzato di Stewart), che ha già subito gli sghignazzi feroci della critica a Berlino, quando è apparso sul grande schermo avvolto dal velo di Lawrence D’Arabia.
Dei nostri divi sono attesi Corrado Guzzanti (nel film di Guadagnino), che ha appena annunciato di voler abbandonare la satira. Si spera che l’aria del Lido lo faccia ravvedere (una lacrimuccia scende pensando ad Avanzi e L’Ottavo Nano). Ci saranno Filippo Timi, Alba Rohrwacher e Roberto Herlitzka, tutti nella troupe del caravaggesco Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio, in gara per il Leone. Storia della passione secentesca tra le mura del convento di Bobbio tra un sacerdote, poi suicida, e una monaca, Benedetta (Lidiya Liberman), accusata di satanismo. Il tema della gemellarità (lo stesso di Gli occhi, la bocca, 1982) – protagonista è il fratello del suicida, Federico (Piergiorgio Bellocchio) -, la pazzia delle prove cui Benedetta deve sottoporsi per dimostrare di non essere figlia del diavolo riportano alle storture della nostra epoca, l’ossessione di internet e i controlli della Guardia di Finanza inclusi. La fotografia di Daniele Ciprì, la bravura del maestro piacentino ci fanno tutti tifare per un Leone, di qualsiasi lega, meglio se d’oro.

Per la statuetta concorre anche Giuseppe M. Gaudino con Per amor vostro, storia della liberazione di una donna, Valeria Golino, da gabbie psicologiche familiari e lavorative, sullo sfondo della Napoli del regista. Ritorno alle origini per tutti e quattro gli italiani in gara, se si pensa che Guadagnino ha girato in Sicilia, anche se la pellicola, remake del film francese La Piscine (1969) di Jacques Deray, è in lingua inglese (e con la sodale Tilda Swinton). Piero Messina ha poi scavato tra le pendici dell’Etna e la sua Caltagirone. Sulla carta i nostri promettono bene. Se la devono vedere con l’unica regista donna, Sue Brooks, e il suo Looking for Grace, che si annuncia intenso e pieno di humor: la famiglia come un vaso di pandora; con l’esordiente Laurie Anderson che porta in gara Heart of a dog, analisi feroce di perdite irreparabili, la morte della madre, del compagno Lou Reed, e del cane (da qui il titolo); Atom Egoyan con Remember, che ci ricorda, appunto, come le malefatte del nazismo si nascondano ancora sotto le ceneri della nostra quotidianità; Aleksandr Sokurov con Francofonia, il museo del Louvre, come paradigma del rapporto con l’arte; il polacco Jerzy Skolimowski con 11 minuti, iperbole della frenesia del nostro modo di vivere. Sarà dura per Alfonso Cuarón, premio Oscar per Gravity, presidente, e i membri della giuria, tra cui Diane Kruger (presente alla cena di gala di questa sera) ed Emmanuel Carrère. Perché solo basandosi sulle firme, il cartellone della rassegna è ottimo, non solo per quanto riguarda il concorso. Vale anche per le sezioni collaterali: “Orizzonti” parte con l’eccellente Rodrigo Plá, “Fuori concorso” prevede il ritorno di Claudio Caligari con Non essere cattivo. Le sezioni autonome “Settimana della critica” e “Giornate degli autori” sono piene di opere prime, a riprova che la scommessa di un festival è quella di trovare nuovi autori. Il vulnus è sempre lo stesso: il mercato quasi inesistente. Per quello, volano tutti a Toronto, dal 10 al 20 settembre. Che assurdità. Intanto stasera si apre con la tormenta di neve sull’Everest, mentre Messner già prende le distanze, mugugnando che l’hanno girato sulle piste da sci. Altro che nevi perenni.
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