4 stelle su 5
Arriva nelle sale il nuovo film del premio Oscar giapponese, in cui si racconta la parabola di un villaggio dalle acque incontaminate, vicino
a Tokyo, alle prese con il «glamping». Una favola noir senza morale o forse no…
Può accadere che dopo aver vinto l’Oscar anche il regista più indie, sedotto dai fasti delle grandi produzioni, deragli non tanto dalla propria militanza autoriale (chi se ne importa se gira dei capolavori), quanto piuttosto realizzi film inutili. È successo a Hirokazu Kore-eda, che, lasciando i suoi tinelli sregolati (ma non disfunzionali) con Un affare di famiglia, è inciampato nell’esangue La verità con super star come Deneuve, Binoche e Hawke.
Non è per fortuna il caso di Hamaguchi Ryūsuke, nonostante Drive my car si sia conquistato la statuetta come miglior film internazionale, dopo aver ricevuto altre tre candidature “pesanti” (regia, sceneggiatura, fotografia), record che aveva raggiunto solo il connazionale Kurosawa con Ran.
Dal 6 dicembre sarà nelle sale Il male non esiste, un favola quotidiana, onirica e noir, dai contorni nitidissimi nell’estetica e nelle idee, ma priva di morale, anzi, con un poco di sarcasmo nei confronti di chi la fa. Un film low budget, sviluppato da un progetto ispirato alle musiche di Ishibashi Eiko, che aveva firmato la colonna sonora di Drive my car. «Se mi avesse detto che il film sembra nato da una grossa produzione sarei stato piuttosto contento», commenta sornione Hamaguchi, sotto la cerimoniosa corazza nipponica. Il male non esiste in effetti non dà quest’impressione: immerge lo spettatore senza effetti speciali in una magia che si dispiega in punta di piedi. «L’Oscar non mi ha cambiato per niente, anche se dovrei fare un raffronto con quel “me” che non ha vinto l’Oscar. Però quello me lo sono perso ormai. È diverso indubbiamente lo sguardo della gente su di me e quindi forse anche io sono cambiato». Di questa filosofia divertita e piena di ironia sono intrisi anche i protagonisti de Il male non esiste, gli abitanti del villaggio di Mizubiki, dove le acque sono così pure che i cerbiatti accorrono ad abbeverarsi. Qui un’azienda della vicina Tokyo vuole costruire un glamping, un campeggio di lusso. Il villaggio, cui vengono proposte laute ricompense, riunito in una assemblea, esprime la propria stupita perplessità, ma soprattutto la paura di rovinare l’eden in cui è immerso. Uno dei paladini di questo fronte è Takumi (Omika Hitoshi), padre single per tirchieria del destino, deciso ad assicurare l’armonia del loro heimat alla piccola Hana (Nishikawa Ryo), sua figlia. È lei con i guantoni gialli e la giacca blu a permettere di osservare tutto con lo sguardo vicino all’infinito dell’infanzia.
Hamaguci spinge la sua macchina da presa nell’intrico delle fronde degli alberi e lungo il cammino dell’acqua, in un incipit al limite del documentario naturalistico, un tantino ostico per chi scrive, quasi il regista sfidasse lo spettatore a seguirlo senza un’apparente meta (nel caso facesse quest’effetto bisogna tener duro qualche minuto). Il film nasce infatti da un esperimento visivo sulle musiche di Ishibashi e da una gita nel villaggio dove vive la compositrice. «In Drive my car dovevo rispettare l’impianto del libro di Haruki Murakami da cui il film è tratto, mentre qui non avevo vincoli. Dovevo solo seguire la musica di Ishibashi, sensibile al vento, alla luce, agli alberi, sempre in movimento. Quando ho visitato i dintorni del suo paese, davanti a un paesaggio potentissimo ho pensato: “Il male non esiste”. Così è nato il titolo del progetto e del film. Poi ho semplicemente pensato come gli esseri umani potessero interagire con questa natura rigogliosa».
Ma all’inizio, a un certo punto, il “non” del titolo viene cancellato. Forse, vien da pensare allora, la morale della favola c’è ed è la critica al consumismo. «Non volevo che alcun elemento all’interno del film venisse additato come malvagio e non è mia intenzione far passare alcun messaggio. Io non vivo fuori dal consumismo e i personaggi di Takahashi (Kosaka Ryuji) e Mayuzumi (Shibutani Ayaka), che portano avanti l’idea del glamping, sono i più vicini alla nostra realtà. Il film potrebbe suggerire che il male esiste, ma il titolo dice il contrario. La tensione tra titolo e contenuto è il mio obiettivo: ovvero creare un terreno su cui lo spettatore eserciti le sue riflessioni». L’acqua è forse la vera protagonista e nel momento in cui la pellicola veniva proiettata a Venezia – dove ha vinto il Gran premio della Giuria -, iniziava lo smaltimento (tutt’ora in corso) nel Pacifico delle acque contaminate della centrale atomica di Fukushima. «Si tratta di una coincidenza. Anche se siamo noi a creare i presupposti per i disastri ambientali. Noi, abitanti di città, produciamo rifiuti e poi cerchiamo di affibbiarli a qualcun altro. Se non cambiamo atteggiamento, questi fatti gravi continueranno ad accadere».
Infatti, queste coincidenze non esistono.
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Cristina Battocletti