L’enorme solitudine della balena bianca: arriva in sala “The whale” di Darren Aronofsky

Sulle tracce del capolavoro di Melville, il nuovo film del Leone d’oro, in gara per tre Oscar, narra l’epopea di un uomo obeso, in lotta con il corpo, l’identità sessuale e i sensi di colpa
Dieci anni fa Darren Aronofsky si era infilato in un teatro di Broadway per vedere The whale di Samuel D. Hunter e da allora era rimasto ossessionato dalla possibilità di trasporre sullo schermo l’opera teatrale. Per un regista, i cui film sono caratterizzati da un rapporto estremo con i propri limiti – The wrestler, Leone d’oro a Venezia nel 2008, il Cigno nero (2011) -, rendere l’immensa stazza di Charlie (Brendan Fraser), affetto da grave obesità, nella stanza claustrofobica del suo appartamento era una sfida da non lasciarsi scappare. L’epopea di Charlie sembra infatti la summa maxima dei temi prediletti da Aronofsky: un cuore che fatica a reggere il peso del corpo e dei sensi di colpa per aver abbandonato la figlia adolescente (la Sadie Sink di Stranger Things) e la moglie per l’amore di un uomo che viene a mancare.
Lo spettro del capolavoro di Herman Melville aleggia costantemente. «Moby Dick è stato la guida della sceneggiatura di Sam, ma anche una pietra miliare della mia vita. L’avevo letto moltissimo tempo fa e l’ho ripreso in mano prima di girare The whale. Ci sono momenti di poesia così alta da lasciarti senza respiro». Come Achab cerca la balena, così i protagonisti sono in cerca di umanità e compassione. «Se vogliamo giocare con le metafore, la balena potrebbe essere Charlie, o meglio, il suo cuore debole. Ma anche la verità, cui tutti diamo la caccia». L’enorme corpo del protagonista è un barometro di ciò che succede nella società. Ne La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri i personaggi muoiono di indigestione o di avvelenamento da cibo. E oggi nelle gare tra fornelli e chef stellati il rapporto con l’alimentazione è più malato di sempre. «Non credo sia un fenomeno legato al nostro tempo, ma piuttosto universale. Il cibo è sempre stato una parte così fondamentale di quello che siamo ed è spesso anche un modo di trovare pace. È l’ago della bilancia di una grande parte della nostra esistenza e naturalmente di Charlie, perché è l’unica maniera in cui riesce a controllare il trauma della perdita del compagno. L’obesità è un problema in tutto il mondo e non solo degli Stati Uniti. Pochissime persone riescono a mantenere un rapporto equilibrato con il proprio corpo. Anche i più salutisti hanno un tema di costante confronto con il cibo, sul controllo delle quantità, ad esempio, e del peso».
I duelli nei film di Aronofsky sono sempre anche psicologici: il lottatore Mickey Rourke in The wrestler e la sua scommessa di risorgere; Natalie Portman, la ballerina in contrasto con il suo doppio, e oggi Brendan Fraser con mani, braccia, gambe sproporzionate, mentre cerca di uccidersi con il junk food, ma nello stesso tempo vuole conquistarsi l’affetto della figlia, piena di risentimento. Il tempo rispecchia la condizione interiore: piove sempre nel film, tranne nell’ultima scena. «È una novità rispetto alla pièce teatrale. È stato un modo per creare un senso di liberazione anche meteorologica». Nonostante Charlie tenti disperatamente di essere buono, la cattiveria di chi lo circonda mostra disprezzo per il suo stato fisico. Il film sembra votato a una vena di misantropia, come se fosse una cifra nichilista della regia. «Io in realtà lavoro sodo per essere ogni giorno migliore. Credo nella solidarietà. I tempi foschi di oggi richiedono unione». Aronofsky tiene di fatto fede a questo principio. La caratura da star dello showbiz non mette distanze: è informale, gentile, curioso dell’altro, esaustivo, empatico. Molto lontano dal contraddittorio Charlie. «L’ho amato subito, nonostante sia così diverso da me. Sono riuscito a calarmi nel suo dolore e nel suo immenso e commovente bisogno di amore».
La scelta di Fraser come protagonista è stata quasi obbligata. «Era l’unico che poteva impersonare Charlie. Ho visto centinaia e centinaia di attori e non uno che potesse affrontare degnamente la parte. Fraser è una persona dolcissima, un gentiluomo ed è molto paziente perché si è sottoposto a sfiancanti sedute di trucco. C’era un intero staff dedicato alla costruzione della sua mole, anche per indossare una tuta di 135 chili che gli restituisse la condizione dell’obesità. Il mio lavoro era sorvegliare che si mantenessero due condizioni: tenere alta l’emotività dello sguardo di Charlie, unico sfogo dell’espressività di un personaggio di fatto immobile, e tenere sotto controllo le questioni tecniche per far risultare il tutto verosimile». Ora il film se la vedrà con gli spettatori, sarà infatti nelle sale il 23 febbraio, e poco dopo, il 12 marzo, con gli Oscar, dove è in corsa in tre categorie: Brendan Fraser come miglior attore; la sua spalla, Hong Chau, come miglior attrice non protagonista e Anne Marie Bradley, Judy Chin e Adrien Morot per il miglior trucco e acconciatura.