Il cinema balcanico non esiste: parola di Milco Mancevski

Il Leone d’oro a Venezia nel 1994 con «Prima della pioggia» sulla guerra nell’ex Iugoslavia, presiede la giuria del Balkan festival a Roma. «Esistono solo film buoni o cattivi. Il conflitto è stato usato spesso come arma di marketing»
Lo vedrete dal 29 novembre al 4 dicembre alla Casa del cinema di Roma
Milco Mancevski è autore di uno degli esordi più fulminanti della storia del cinema, Prima della pioggia, una di quelle pellicole che cambiano la vita di uno spettatore – come chi scrive -, legandola indissolubilmente al grande schermo. Questo film circolare ci disse e predisse verità e follie della guerra nei Balcani con un volano poetico struggente, privo di retorica. Girato nel 1993, a due anni dall’inizio del conflitto che durerà altri otto lunghi anni, poggiava sul magnetismo del Marlon Brando iugoslavo, Rade Šerbedžija, forse alter ego di Mancevski, e sul tratto ascetico di Grégoire Colin. Il primo a stupirsi dell’effetto del suo film fu proprio quel ragazzo macedone di 34 anni, che, sbigottito, a fatica tenne in mano la statuetta del Leone d’oro a Venezia nel 1994.
Il Sole 24 Ore lo raggiunge in video nella vecchia casa paterna di Skopje – dove vive quando non è a New York -, in procinto di partire per Roma, dove sarà il presidente della Giuria del Balkan Film festival (dal 29 novembre al 4 dicembre alla Casa del cinema, casadelcinema.it). «Sono contento che i Balcani abbiano una vetrina, anche se diffido del cinema “regionale”, che per me non esiste: ci sono solo buoni e cattivi film». La guerra nei Balcani è stato il primo conflitto ampiamente riportato per immagini. E forse questo ha dato al cinema di quell’area un’opportunità maggiore di sviluppo rispetto ad altre arti. Come è accaduto per Danis Tanović, inizialmente reporter di guerra, che con No man’s land ha vinto l’Oscar nel 2002. «La guerra ha sicuramente aiutato a rendere visibili opere, alcune delle quali sono veramente eccellenti. Mentre per altri è stata un’operazione di marketing per pamphlet senza arte». Mancevski invece di arti ne combina tre: è fotografo, sceneggiatore e regista. «Considero un lavoro solo il cinema: fotografia e scrittura sono per me giochi d’infanzia, perché raggiungono istantaneamente il proprio risultato, non coinvolgono altre persone, non richiedono capitali. Sono fiammate. Nel cinema, invece, hai la responsabilità di una squadra che lavora per te. E le aspettative sono molto rigide. C’è meno possibilità di sperimentazione. Il pubblico vuole stare in sala due ore, vedere un inizio e una fine».
Un limite che Mancevski tenta costantemente di superare: «Ci sono due modi per innovare: spezzare la narrativa, dividendo la storia in tre parti o farla raccontare da punti di vista diversi. Oppure, frammentare le emozioni: iniziare con un dramma romantico per poi sconfinare nella commedia. Alcuni riescono a farlo con grande successo, come i fratelli Coen. Ma per gli altri è pericoloso, perché gli spettatori spesso vogliono cose semplici». Mancevski è passato dal genere drammatico (Prima della pioggia) al western, Dust (2001), al thriller (Shadows, 2007), al falso-documentario (Bikini-moon, 2017). «Non è una scelta premeditata. A un certo punto mi accorgo che desidero approfondire un percorso inesplorato e d’improvviso piombo in un altro genere. L’ultimo mio film, appena finito, Kaymak, è una dark comedy. È per me una novità».
Prima della pioggia si poggiava sul mito di Ulisse, su Romeo e Giulietta e Amleto. «Il cinema riprocessa i miti, creandone di nuovi. Anche io continuo a farlo, cercando allo stesso tempo di allontanarmi dagli archetipi senza fuggirli, costruendovi sopra nuovi personaggi».
E le radici? «Non avevo mai pensato di lavorare in Macedonia. Appena diplomato alla scuola di cinema a New York sono tornato nel mio Paese, ma non ho trovato lavoro, così ho fatto ritorno in America. Quando ho deciso di girare Prima della pioggia ho dovuto fare un lavoro su me stesso per calarmi nuovamente nella cultura macedone. Sono tornato obbedendo a un impulso ed è stata un’esperienza grandiosa. Ma non voglio essere la voce cinematografica della Macedonia. Tra l’altro, dopo il film ci sono state diverse proteste, perché i miei connazionali non erano contenti di come avevo rappresentato il Paese. Nemmeno Antonioni e Bertolucci parlavano di Italia nei loro film. L’arte è universale».
Nel vicino Kosovo la tensione è ancora alta: la Serbia rilascia targhe di automobili che dovrebbero essere emesse da Pristina in segno di sfida. «La guerra dei Balcani è finita. La gente voleva molti Paesi separati e li ha avuti. Se mi chiede se siamo più felici di trent’anni fa, bisogna intenderci sul concetto di felicità. Io non ero troppo felice se quarant’anni fa ho sentito l’esigenza di andarmene. C’era troppo nepotismo, corruzione e non eravamo completamente liberi. Oggi posso dire che alcuni problemi sono rimasti e sono peggiorati, come il nepotismo e la corruzione. E la gente è più povera. Ma anche allora non era un bel tempo. La Storia insegna che si fanno tre passi avanti e due indietro e poi tre ancora avanti. Ora siamo a questo stadio».