La sceneggiatrice Weber e il regista Mundruczó raccontano
la storia autobiografica di un parto a casa mal gestito. Il film ha benedizione del produttore Martin Scorsese
L’esperienza innominabile per eccellenza: la morte di un neonato, dopo pochi respiri a seguito di un parto in casa travagliatissimo. Per aver restituito la sofferenza della puerpera con crudo verismo, Vanessa Kirby (Martha) si è guadagnata per Pieces of a woman di Kornél Mundruczó (il film è fruibile su Netflix) la candidatura come migliore attrice protagonista agli Oscar del 25 aprile. Una interpretazione fisicamente ed emotivamente allo spasimo, per cui Kirby si era già giustamente aggiudicata la coppa Volpi a Venezia, reggendo un piano sequenza di ventitré minuti da far tremare i polsi. La sceneggiatura di Káta Weber racconta un’esperienza autobiografica, vissuta con il marito di allora, il regista Mundruczó. Quando compare per parlare del suo film ha lo sguardo di chi ha frugato tra le macerie e vi ha trovato un dolore ancora pulsante. Si schermisce dicendo di aver affrontato il tema della perdita in generale, ma il pallore tradisce l’angoscia persistente nel ricordo: «Parlare della morte di un neonato è un tabù: ho cercato di farlo nel modo più onesto possibile. Dobbiamo tutti convivere con la morte e dialogarci, ma quando riguarda i bambini è insopportabile, perché va contro natura. Pieces of a woman però non è la mia storia. Non si tratta del mio corpo a corpo con ciò che è successo. Io ho due figli e mi è accaduto che uno dei due morisse. E rimango ancora e comunque la madre di tutti e due i bambini».
Una pellicola che è anche un’impresa coraggiosissima dal punto di vista umano e professionale, perché il regista è il padre del figlio mancato. Mundruczó, conosciuto come abile capovolgitore di mondi (a teatro), sempre a fianco degli ultimi (al cinema) con film sulla marginalità (White God – Sinfonia per Hagen, 2014; Una luna chiamata Europa, 2017), questa volta lascia la collettività per rifugiarsi nel personale, ancora una volta in maniera estrema. «Cerco sempre di forzare i confini. La decisione di girare la scena della nascita con un lungo piano sequenza è cinematograficamente molto azzardata. È tutto costruito: Vanessa non era incinta, abbiamo dovuto applicarle una pancia finta. La sfida mi ha molto affascinato e abbiamo deciso di affrontarla, anche se di fatto siamo rimasti fedeli alla sceneggiatura, che si sofferma sul parto per trenta pagine. Abbiamo capito che il piano sequenza era l’unica soluzione perché non volevamo interrompere l’emozione degli attori: con un respiro unico i sentimenti sono più forti. Si riesce a restituire il fascino di un potere enorme, che perfino io, maschio, presenza non necessaria, avvertivo soverchiante. Capisci che non puoi controllare tutto, soprattutto la nascita e la morte. Da una parte, è un sentimento inaccettabile, perché non possiamo intervenire; dall’altra, ti rendi conto che non sei solo perché c’è qualcosa che regola gli accadimenti, a prescindere da te. I miei primi film erano mirati a dare voce a chi non l’aveva. Con questo lavoro ho tentato di concentrarmi sulla “normalità” che riguarda la gran parte dei cittadini, cercando di essere critico con me stesso». Pieces of a woman riguarda infatti non solo la coppia di Martha e Sean (Shia LaBeouf), ma anche il parentado che si intromette, incistando rapporti di gelosia, radicalità, vendetta, in cui la religione mette il suo zampino, secondo false interpretazioni, pur anche in buona fede. «Capita dopo un’esperienza del genere – interviene la sceneggiatrice – di non riuscire a veder un futuro e di aver il rigetto di coloro che ti spingono a vivere. Vogliono che torni indietro la persona che sei stata, anche se non è più possibile: dentro di te convivono realtà parallele». Il film, girato in inglese, ha subito molte trasformazioni perché, come spiega Weber, «ci sono situazioni che in Ungheria hanno importanza, ma nel mondo anglosassone per nulla e viceversa». La lingua ha agevolato Martin Scorsese, che dopo aver visto la pellicola, ne è diventato produttore. Forse quel nome ha inciso sulla scelta dei candidati per le statuette. Comunque sia, Kirby se lo merita, ancor di più per aver conquistato il regista, che inizialmente non aveva pensato a lei. «La produzione l’aveva adocchiata dopo la parte in The crown. Quando Vanessa è arrivata a Budapest, ho capito dai silenzi che abbiamo condiviso e dal suo modo quieto di muoversi, che era l’attrice giusta per il film. Mi ha ricordato Catherine Deneuve diretta da Buñuel o le interpreti di Fassbinder».Kirby ha vinto la sfida, ha saputo reggere il ruolo, «la sensazione di costante isolamento che prova una donna in questa situazione – come puntualizza la sceneggiatrice -, costretta a fare i conti con l’incapacità della gente di relazionarsi con chi è vittima di un così ferale evento». Che oggi è più comprensibile dopo le separazioni violente della pandemia, come conclude Mundruczó: «in questo momento di perdita generale questa storia non è più così astratta».
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Cristina Battocletti