Berlinale: La porno insegnante, l’eremita, l’amica immaginaria e gli anni Ottanta

Piccolo consuntivo dei film più sorprendenti della 71esima edizione della Berlinale. Tra le novità, la pellicola del regista rumeno

Katia Pascariu

L’immagine che vedete nella foto è di una donna sotto processo. È una professoressa rumena, interpretata da Katia Pascariu, e i suoi accusatori sono i genitori e i nonni degli allievi della classe in cui insegna. Il suo reato? Aver permesso al marito di riprendere un loro rapporto intimo, che non si sa per quali misteriose vie è stato caricato su internet ed è diventato virale. È questo il succo di “Bad Luck Banging or Loony Porn”, di Radu Jude, regista rumeno, che ha fatto incetta di premi in numerosi festival internazionali.

Una storia che ricalca un fatto di cronaca accaduto anche a una giovane maestra in Italia, e che il regista declina secondo un andamento assai originale e che nella parte centrale ospita un alfabeto della pornografia culturale in cui, secondo il regista, è sprofondato il suo Paese. Jude infatti segue la sua eroina per le strade di Bucarest, ma in realtà vuole restituirci l’immagine di una nazione immersa nella maleducazione e nella volgarità di pensiero, di immagini e di costumi, in cui a vincere è la prepotenza e il dominio del denaro.

La vicenda della donna non è che il capro espiatorio di una società malata, figlia della dittatura feroce di Ceaușescu e del capitalismo selvaggio, snodata sul tono ironico, surreale (alla fine addirittura fantasy) e verboso della migliore cinematografia rumena.

Diversamente da “Albatros” di Xavier Beauvois che racconta la storia di un poliziotto di provincia in lotta contro una quotidianità di lordure e miserie, abusi su minori e suicidi. Tiene tutto dentro, riservando la sua bellezza, quella che è rimasta, per il fuoco casalingo, rasserenato da una moglie e una figlia amatissime. Nel tentativo di salvare un contadino da sicuro suicidio, commette un’imprudenza, causandone la morte. Ne deriverà una gogna collettiva, che romperà il suo equilibrio interiore, già messo in crisi dalla routine lavorativa. Da questo momento la pellicola spicca il volo, come vorrebbe il suo titolo, verso una universalità commovente. Il poliziotto si dimette e nel segreto parte per il mare grande con la sua piccola barca a combattere il male dentro di sé. Un film cristologico, che ripercorre le orme dell’eremitaggio, già seguite dal regista con “Uomini di Dio” (2010).

Si conferma ancora la mano felice di Céline Sciamma nel suo “Petite maman”, dove una bambina di otto anni si rifugia in un’amica immaginaria molto speciale per sfuggire al dolore della morte della nonna e all’incertezza del rapporto fra i genitori. Sciamma costruisce ancora un legame femminile tenerissimo e portante, che supplisce a un abbandono, in cui il rapporto con la natura fa da collante. Bello ma non sorprendente.

La pellicola più nuova rimane, nella sua patina anni Ottanta, una delle prime in gara, “Memory box” by Joana Hadjithomas e Khalil Joreige: sembra mutuare la formula del video eighties e farla fiorire, rivisitando un periodo che solo oggi comincia a essere analizzato a distanza di decenni. A dispetto della formula estetica, la sostanza è ben più pesante perché riporta l’analisi della guerra civile libanese con gli occhi di una ragazza, poi fuggita all’estero con la madre. Entrambi i filmmaker sono nati in Libano nel 1969. Hanno scelto di traslare la loro esperienza diretta e indiretta in maniera originale, che meriterebbe un premio solo per questo. Raccontare una sofferenza collettiva attraverso un fumetto o quasi è da maestri. Peccato per l’inizio con messaggini e telefonate: a forza di voler essere contemporanei si finisce per sporcare un senso di appartenenza al passato cui si rende omaggio.