Sono passati trent’anni dall’inizio della guerra dei Balcani e proprio alla memoria di quell’area geografica implosa è dedicata la XXXIIesima edizione del Trieste Film Festival, che ha saputo specializzarsi e trasformarsi in osservatorio cinematografico privilegiato dell’Europa dell’Est. Quest’anno, nell’impossibilità di uno svolgimento dal vivo, c’è la consolazione di raggiungere una platea allargata attraverso lo streaming (ogni acquisto vale per 72 ore) sulla piattaforma MyMovies. Per capire cosa è successo in Serbia, da quando i riflettori del conflitto non illuminano più l’ex Iugoslavia, c’è Father (premio del pubblico nella sezione Panorama dell’ultima Berlinale) di Srdan Golubović, racconto di un padre in lotta per la tutela dei figli, sottrattigli per troppa povertà e per miseri traffici di funzionari corrotti. La filmografia del bravo regista serbo, classe 1972, è percorsa da un profondo senso di nostalgia verso il concetto di patria di Tito, in cui è cresciuto Golubović nei primi vent’anni della sua vita, obbedendo al motto di Bratstvo i jedinstvo, Fratellenza e unità. Il regista non suggerisce mai che quella fosse un’epoca ideale, ma mostra che dieci anni di conflitto hanno ridotto un popolo in un’aggregazione di individui senza un’identità collettiva, con un fardello di violenze subite, perpetrate o vissute de relato, troppo pesante da sopportare. La pellicola è visibile fino a martedì, giorno in cui sarà in streaming lo strabiliante esordio della georgiana Déa Kulumbegashvili: Beginning, in gara a Cannes 2020. Nonostante la cancellazione della manifestazione francese, la pellicola ha vinto il premio FIPRESCI e il festival di San Sebastian.
La regista 34enne sceglie un formato quasi quadrato con macchina da presa fissa per raccontare una storia individuale e corale, in cui è pregnante anche e, forse soprattutto, quello che succede fuori dall’inquadratura. Il film ha inizio con il ritrovo in chiesa della comunità religiosa dei testimoni di Geova. Due ragazzi, al limitare del campo visivo, scontano una punizione con la faccia al muro. Yana (Ia Sukhitashvili), la moglie del pastore, accoglie i fedeli e assiste alla predica, quando una bomba incendiaria si infrange sul pavimento. Da quel momento la regista trasporta lo spettatore verso nuovi quadri fissi, in cui si limita a dare significato alle situazioni semplicemente mettendo a fuoco un primo piano o un campo lungo. In questi frammenti si snoda la malattia interiore di Yana, già germogliata prima dell’attentato, specchio di una società squilibrata. Si concede un movimento di macchina per sottolineare la tortura psicologica e fisica perpetrata da un agente di polizia verso Yana. Kulumbegashvili, come i grandi della letteratura, tira il filo laterale di una tela e ne sconquassa la trama. E dice registicamente una cosa nuova con sapienza antica.