Jia Zhangke: “Il coronavirus può diventare l’anticorpo della dittatura”

Il Leone d’oro cinese: «Usiamo questo momento per rafforzare la nostra indipendenza di pensiero e immunizzarci contro i mali sociali»

Alla domanda «Come sta?», Jia Zhangke risponde «Fine, fine!» e ride divertito. Sa bene che su di lui, come cinese, grava il sospetto di passare per untore. «È interessante la reazione dell’Occidente nei confronti dell’epidemia di coronavirus che ha colpito il mio Paese». In effetti anche nella saletta messa a disposizione dalla Berlinale, dove il regista, sceneggiatore, pittore e scrittore ha presentato fuori concorso il documentario Swimming Out Till the Sea Turns Blue, c’è molta meno gente di quella attesa. La fobia prende corpo nell’assenza.


Il regista stesso ha fatto fatica a raggiungere la Germania e la sua presenza al festival è stata in forse fino all’ultimo. «È il periodo più difficile per la Cina negli scambi con il resto del mondo», sottolinea. «Moltissimi voli sono stati cancellati, le informazioni sono ansiogene e contraddittorie. Abbiamo temuto fino all’ultimo di non arrivare, ma alla fine ce l’abbiamo fatta». I disagi naturalmente non sono stati circoscritti ai soli spostamenti: «Abbiamo fatto una fatica incredibile ad ultimare il montaggio, perché non potevamo uscire di casa, era difficile trovare studi aperti e maestranze al lavoro. Abbiamo terminato sul filo di lana».
La Cina, come da una settimana il settentrione dell’Italia, è diventata un Paese di fantasmi. La gente cammina con le mascherine; Pechino, Hong Kong, Shanghai non sono più le metropoli formicaio scolpite nel nostro immaginario: «La vita è cambiata, i cinesi hanno smesso di andare al cinema e a teatro, che sono le attività di svago più amate. È una questione soprattutto psicologica, non si sentono sicuri a frequentare spazi pubblici e affollati. Penso ci vorrà del tempo per tornare alla normalità; dobbiamo aspettare l’estate, quando il virus sarà sotto controllo». Questo stato di sospensione ha per il regista dei lati positivi: «La situazione ci dà l’opportunità di riflettere su molti aspetti della vita che avevamo trascurato in nome del progresso, della trasformazione e del cambiamento. Dobbiamo usare il tempo per trovare un nuovo baricentro, capire bene dove vogliamo andare, quale società vogliamo diventare».
Il discorso appare nebuloso, non si capisce se Zhangke, da attento osservatore della società qual è, stia parlando di una questione morale, o piuttosto se stia manifestando un biasimo verso la corsa al consumo su cui il suo Paese si è gettato come un proiettile, spesso senza regole. «Dalla mia prospettiva di regista penso che questa pausa possa incrementare una riflessione su come mantenere la schiena dritta e su come coltivare la nostra indipendenza di pensiero. Ognuno di noi deve cogliere l’occasione per rafforzarsi come voce indipendente e come cittadino. Insieme possiamo formare una collettività che si immunizza dalle malattie della società».
Il morbo di cui parla Zanghke non è certo un disturbo fisico, ma il cancro della dittatura contro cui da decenni si oppongono migliaia di dissidenti e che dal 2014 vede impegnato il popolo degli ombrelli gialli nei moti di Hong Kong. Il regista è costretto a esprimersi con circonlocuzioni, ma il messaggio che vuole trasmettere è chiaro. Da intellettuale si augura che la gente approfitti del coronavirus, che espone il regime a un cono mediatico di grande impatto, per sviluppare gli anticorpi della democrazia. Zhangke ha sempre sentito addosso il fiato del Partito attraverso la censura: il suo primo lungometraggio Pickpocket, approdato nel 1998 proprio alla Berlinale, su un ladruncolo che vive di espedienti, innamorato di una prostituta, in patria è stato sottoposto a pesanti tagli perché non corrispondeva all’immagine che la dittatura vuole dare di sé all’estero.
Così, nonostante i premi tributati dai massimi festival internazionali (il Leone d’oro per Still life nel 2006, il premio per la sceneggiatura a Cannes nel 2013 per Il tocco del peccato), Pechino guarda Zhangke con diffidenza, e sforbicia le pellicole del regista, soprattutto quando affonda troppo in una realtà che la dittatura vuole nascondere attraverso l’approccio neorealistico che caratterizza il suo cinema.
Zhangke, dalla sua, continua imperterrito a raccontare il feroce impatto della modernizzazione sulla Cina, partendo dalla sua regione di origine, lo Shanxi. Ha fotografato la generazione del “figlio unico” in Unknown Pleasures (2002), l’esilio forzato di un milione di persone sradicate dalla propria casa per lasciare posto alla costruzione della Diga delle Tre Gole in Still life.

E ancora la povertà, il sottobosco della mala. Accanto a lui combatte la moglie, Zhao Tao, divina attrice feticcio delle sue pellicole e produttrice del film presentato a Berlino. Swimming Out Till the Sea Turns Blue è l’ultimo capitolo della trilogia sulle arti in Cina, con cui Zhangke torna al documentario dopo dieci anni, facendo perno ancora sullo Shanxi e sulla voce di quattro scrittori dissidenti. Con loro ricorda la fame («Ho scoperto solo oggi che è stato un sentimento condiviso»), le evoluzioni sociali, e, attraverso il gancio della letteratura, lancia un allarme sullo stato di crisi della società contemporanea: «Le nuove generazioni tendono a ricevere informazioni da molteplici canali, come twitter, in maniera frammentaria: tanti messaggi in poche parole. La letteratura è tutto il contrario, ovvero comprendere il mondo attraverso i dettagli. Dobbiamo fare in modo che la gente continui a leggere, per capire le sfaccettature della storia e della realtà». In modo che si faccia gli anticorpi ai totalitarismi. Ma questo è sottointeso, Zhangke non lo può dire.

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