W la giuria della Berlinale guidata da Jeremy Irons. L’oro va all’iraniano che non è potuto venire, un bel segno di protesta contro il regime con un bel film. Il migliore attore va a Elio Germano per Ligabue.
L’intervista a Elio Germano e Giorgio Diritti
Questo è un film sulla diversità e sull’accoglienza. Che significato ha raccontare questa storia oggi?
Giorgio Diritti : «Mi sono innamorato di Ligabue, pur essendo lui un po’ bruttino. Anzi, il mio interesse nasce proprio dal fatto che era bruttino, parto infatti dalla dimensione del rifiuto. Soffriva di rachitismo, era una persona isolata, arrivata in Italia dopo l’espulsione dal Paese in cui aveva sempre vissuto, la Svizzera. Era un emarginato e questo ha mosso in me un sentimento di curiosità anche affettiva, che mi ha spinto ad andare nella direzione di immaginare una storia che fosse fortemente contemporanea, per quelle che attualmente sono le logiche di emarginazione, presunzione e in alcuni casi di discriminazione razziale. Le vicende di Ligabue dimostrano che in ogni persona c’è una potenzialità, che non riguarda solo l’aspetto della dignità, ma un valore che ha bisogno di trovare la luce. Il buon Ligabue ha avuto la forza di mettere tanta energia per tirare fuori il suo lato creativo di pittore. Forse una comunità un po’ più morbida favorirebbe la “non disperazione”, e l’inserimento nella società di certe persone che sono più in difficoltà in alcuni momenti della vita.
Che diversità ha visto nel personaggio che ha interpretato?
Elio Germano: «Analizzare la diversità è interessante per ciò che restituisce di noi. La ricerca della comprensione dell’altro da sé, della ricerca dell’amore, della ricerca dell’accettazione riguarda tutti noi. L’esperienza del rifiuto e della comprensione è qualcosa che sicuramente abbiamo vissuto. E anche lo sforzo di trovare una propria dignità, una propria misura dell’essere e degli altri che ci corrisponda e che non risulti una violenza sul nostro essere per trasformarci in qualcosa che non siamo. Queste sono dinamiche proprie di tutti gli esseri umani, per cui l’esperienza di Ligabue amplifica questa sensazione e ci permette di specchiarci. La sua vita diventa emblematica per la comunità.
«Volevo solo nascondermi» ha dei punti in comune con il suo precedente film «L’uomo che verrà». Per esempio, l’incombenza del regime fascista, le atmosfere agresti.
Giorgio Diritti: «Credo che ogni film dica qualcosa di me, del mio modo di parlare al mondo e di mettere l’accento su qualcosa che sento importante. I film di un autore sono tutti parenti ed è comunque vero che tra queste due pellicole esiste un trait d’union. L’elemento comune principale è , al di là di quello storico, l’importanza, il desiderio di porre in evidenza alcune cose. Ne «L’uomo che verrà», oltre alla vicenda drammatica della strage, c’è il grande desiderio di rispetto per la vita dell’uomo, di difesa della vita da ogni forma di ideologia che la relativizza, che porta a uccidere le persone. Ne «Volevo solo nascondermi» la riflessione è simile. Nel senso che l’identità di una persona non è solo la sua esistenza, ma il poter fare ciò in cui crede. Così come i contadini, che si sono visti derubare dai tedeschi il diritto di vivere, avevano il diritto di vedere crescere i figli, di vederli mettere su famiglia, di vederli continuare a coltivare i campi, capiamo che Ligabue lotta per il diritto a realizzarsi. La vita si compie anche secondo un normale senso di felicità e le ideologie, che sono spesso condizionate da una necessità di avere potere e denaro, sono elementi che tolgono serenità, ma soprattutto l’identità. Ligabue ha lottato e partecipato alla vita con grandissima passione».
Come si è preparato per calarsi nell’interpretazione di Ligabue, nei suoi movimenti, quando imitava, ad esempio, quelli degli animali?
Elio Germano: «Ligabue cercava di essere quello che voleva dipingere. Aveva l’esigenza di fare dei quadri per venderli. Trasformava la propria necessità di sopravvivere in energia. In questo senso i quadri erano un modo per difendersi dai fantasmi, allora diventava tigre e uccello. Forse aveva bisogno di trasformarsi in un animale, oppure voleva tirare fuori un suo momento di conflitto e di ribellione. Eil bisogno passava attraverso il suo corpo, non si trattava affatto di un’operazione intellettuale. Si sentiva più parte della natura e del mondo animale che del mondo sociale. Perché il suo ambiente erano le rive del Po, su cui si sdraiava, e in mezzo agli animali. Ed è per questo che si rappresentava anche sotto forma di animale nei suoi quadri. Il mio modo di approcciarmi al lavoro è sempre lo stesso: immaginare che se io fossi nato in quel mondo lì, in quest’epoca storica lì, con quei genitori, avessi avuto quei problemi, sarei stato lui.
Il film ha dei flashback iniziali per poi aderire a un aspetto più cronologico e biografico. Da cosa è nata questa esigenza di costruzione del film?
Giorgio Diritti: «C’è un doppio meccanismo. All’inizio vi è un parallelismo con una dimensione di minore fluidità mentale, con le angosce e paure infantili, che sono emotivamente forti, quasi taglienti e resecanti rispetto alla memoria. Escono fuori come se fossero legate all’emotività. Da quando Ligabue esce dal manicomio, il percorso si stempera, diventa più lineare perché anche la sua vita procede in questo modo. Da qui inizia a uscire e crescere. I semi dell’infanzia ci aiutano a capire la presunta follia, che non è solo follia, ma sofferenza per i grandi traumi subiti.
Ligabue è stato ricoverato per la prima volta sotto il fascismo perché era un barbone: non aveva moglie, non aveva casa, non parlava l’italiano. Se i fascisti gli spiegavano come doveva comportarsi lui non li ascoltava. In manicomio gli hanno fatto un elettroshock e non si sa la patologia avesse degli elementi suoi originali, o se fosse creata dall’ambiente esterno.
Nella sua interpretazione prevale l’elemento della vitalità su quello della pazzia
Elio Germano: «C’è una grande tradizione di pensiero filosofico che descrive la follia come una spiccata aderenza a un altro sistema, una mancata volontà di trasformarsi o di adeguarsi all’esterno, un assecondare le proprie pulsioni. La pazzia è più nell’occhio di chi la guarda che nel corpo di chi la vive. È un discorso di sistema di riferimento. Per accettare la parte per me è stato molto importante vedere se attraverso la prostetica (un trucco che utilizza protesi, maschere in lattice per creare somiglianza con il personaggio n.d.r.) mi sarei avvicinato al personaggio. Ero innamorato della sceneggiatura, ma avevo dei dubbi professionali su come interpretare la follia. Non lo so fare, né mi interessa farlo. E invece con il trucco prostetico abbiamo raccontato un essere umano. Poi la deformità è nell’occhio di chi guarda».