L’intervista con Bong Joon -ho: lotta di classe tra parassiti

«Il divario tra poveri e ricchi è aumentato. Li dividono rabbia e perfino gli odori»: il regista sudcoreano racconta il film rivelazione, Palma d’oro a Cannes

La lotta di classe e la simpatia per i meno abbienti sono i binari su cui corre il cinema di Bong Joon-ho. Il regista sudcoreano riesce a farlo con tanto garbo e intelligenza da far digerire le sue proteste sociali anche a icone del capitalismo come Netflix, che ha distributo il suo Okja nel 2017, o a produzioni mastodontiche, come Snowpiercer, che costò 38 milioni di dollari nel 2014, budget faraonico e insuperato per il Paese del regista. Sullo stesso solco, ma in versione indie, si inserisce ora Parasite, nelle sale dal 7 novembre, che racconta la storia della famiglia Kim, genitori e due figli ormai adulti, che sopravvive con i sussidi di disoccupazione, ma in grado di rovesciare la propria condizione quando viene a contatto con gli abbienti Park. «Ho iniziato a pensare a questa sceneggiatura – scritta dallo stesso regista e Han Jin Won n.d.r. – quattro anni fa, ma ho notato che la distanza tra i ceti molto agiati della società e il proletariato non è diminuita, anzi, è aumentata e si è estesa in tutto il mondo. Uno dei personaggi, il signor Park, racconta a un certo punto che, nell’azienda di cui è CEO, si erano presentati cinquecento laureati per una posizione da vigilante. È una notizia che abbiamo preso dai giornali». La realtà nel film è condita da paradossi con punte di comicità irresistibile, a partire dalla scena in cui i due fratelli Kim Ki-woo (Woo-sik Choi) e Kim Ki-jung (So-dam Park), poveri in canna, fanno le acrobazie in bagno per trovare il punto in cui appendersi alla rete internet dei vicini. È lo stile grottesco dello stesso Bong Joon-ho, che accarezza come se fosse un micino un microfono, abbandonato sul tavolo, dotato di pelo per attutire i rumori, e che se la ride ancora per la Palma d’oro conquistata in punta di piedi, mentre i cronisti a Cannes rincorrevano i nomi blasonati del concorso.


Parasite può essere considerata una black comedy e il regista è d’accordo: «Ma può essere anche una commedia sociale, un film d’azione, un thriller, mi va bene tutto». In fondo, era difficile da catalogare anche Snowpiercer (2014), salutato come fanta thriller distopico, in cui si racconta la rivolta tra i sopravvissuti di una glaciazione, divenuti passeggeri forzati di un treno che non si ferma mai e su cui le differenti condizioni di viaggio innescano l’insubordinazione. Un tema assai simile a quello affrontato in Parasite: «Tra i due film vi è anzitutto una differenza geografica: qui siamo in Corea del Sud e la storia per il 90 per cento del tempo si svolge tra la lussuosa villa dei Park e il tugurio dei Kim. In Snowpiercer si attraversavano i continenti in un contesto internazionale». A conti fatti la cinematografia del regista sudcoreano sublima gli incubi psicoanalitici non tanto individuali, quanto collettivi di un’epoca come la nostra, agevolata, distorta e disturbata nello stesso tempo dalla globalizzazione: in Okja l’ingegneria genetica e il consumismo, in Snowpiercer l’irreversibilità crudele del cambiamento climatico, in Mother (2009) la mancata volontà di responsabilizzare le nuove generazioni, in Memories of a Murder (2003) il crimine come specchio di una società arretrata.  Bong Joon-ho è solito non dividere i suoi personaggi tra buoni e cattivi: «In Parasite i poveri ingannano, mentono, falsificano documenti e sostanzialmente sono imputabili di frode, ma non provano alcun senso di colpa per le loro azioni, non pensano di delinquere. Sono così superficiali da essere quasi ingenui e adorabili». E hanno molta rabbia repressa. A un certo punto il padre Kim Ki-taek (Kang-ho Song) cerca di convincere la moglie Kim Chung-sook (Hye-jin Jang): «Sono ricchi, ma sono gentili», e lei lo corregge: «Sono gentili perché sono ricchi». Il regista invita però a non prendere abbagli: «A prima vista si potrebbe pensare che gli unici parassiti siano gli straccioni, ma questi sono stati spinti da condizioni di vita estreme all’indigenza. In fondo, anche la famiglia abbiente è parassitaria a suo modo: dipende completamente da altre persone per molteplici incombenze, dalla pulizia della casa, alla guida dell’auto, all’educazione dei figli». Un altro tratto distintivo tra le classi nel film sono gli odori. « I ricchi e i poveri nella vita quotidiana compiono percorsi molto diversi: occupano spazi differenti a partire dai posti sugli aeroplani e sui treni. Visitano luoghi di lavoro e ristoranti diversi. Solo nella specifica situazione del film di convivenza forzata diventano così intimi da sentire il reciproco odore. L’estremo divario tra le classi sociali è, oltre che triste, pericoloso. Soprattutto se scarichiamo il problema sulle generazioni ora in fasce». Anche nel cinema esiste una sperequazione: quella tra le piattaforme e le piccole sale. «Lo streaming è un buon modo per vedere i film, ma naturalmente quello ottimale è il grande schermo. Penso che Netflix dovrebbe essere più generoso con gli esercenti rilasciando i suoi film molto prima della piattaforma e per un tempo più lungo. Dall’altra parte gli esercenti dovrebbero essere più flessibili e facili al compromesso».
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