La borghesia senza amore di Michael Haneke: “È la fotografia della nevrosi dei Paesi ricchi contro quelli poveri”

Michael Haneke precipita i bambini dei suoi film nello stesso gorgo feroce degli adulti: ne Il nastro bianco (Palma d’oro a Cannes nel 2009) infilzavano uccellini con le forbici. In Happy End, dal 30 novembre nei cinema, Ève (Fantine Harduin), una quasi tredicenne che ha nel corpo tutte le acerbità di una bambina, affronta la depressione della madre, finge di aver assorbito la morte del fratellino e la nuova famiglia del padre Thomas (Mathieu Kassovitz) riproducendo gli schemi di indifferenza e cinismo cui l’ha abituata la vita. Accentuati anche dalla famiglia altoborghese del padre, i Laurent di Calais: il patriarca Georges (Jean-Louis Trintignant), che ha lasciato l’azienda di famiglia alla figlia Anne (Isabelle Huppert); Anaïs (Laura Verlinden), seconda moglie infelice e trascurata di Thomas, da cui ha appena avuto un figlio; Pierre Laurent (Franz Rogowski), figlio di Anne, che contrasta il suo milieu con fare rabbioso, infantile.


«Racconto in parallelo le storie dei singoli e li riunisco attorno a un tavolo, per realizzare che non si conoscono per nulla», spiega il regista austriaco. Thomas si atteggia ad adolescente, Ève ad adulta, Anne non riesce ad avere un rapporto con il figlio. «La mia non è la fotografia della realtà, ma una provocazione, una concentrazione della crisi familiare. È la fotografia dell’amore che tracolla in nevrosi, mentre ciascuno è immerso nel suo disagio».Ève s’inserisce in questo contesto come una sorta di intrusa, e così crudamente la fa sentire Georges. Ma in un momento di cupo sconforto della ragazzina le tende la mano con un discorso scevro dall’ipocrisia che spesso circonda i bambini con la scusa pelosa di preservarli dal male. «La scena tra la nipote e il nonno è il cuore del film e l’unica in cui c’è amore». Trintignant interpretava il personaggio di Georges anche in Amour (altra Palma d’oro nel 2012), ritratto del declino feroce nella senilità di una coppia, uno dei punti di coincidenza del film precedente con Happy End.

«È sempre la stessa testa che fa i film e i temi si assomigliano: le cose che ti piacciono o ti annoiano non cambiano molto, soprattutto quando si raggiunge una certa età – sottolinea Haneke, classe 1942 -. Non posso parlare di argomenti che non conosco, per esempio, girare un film sui migranti perché è un argomento con cui non ho confidenza». Ma i migranti nel film compaiono e Calais, dove è ambientata la pellicola, è una delle frontiere calde in questo senso. Ma il regista non lo considera un luogo d’elezione. «Ho scelto la Francia perché il cast di attori è francese, perché Jean Louis Trintignant, che aveva dichiarato che non avrebbe più recitato, ha voluto mettersi nuovamente in gioco con me. Potevo girare un film uguale in Austria e Germania, riportando la stessa situazione. Se ci si vuole concentrare sull’aspetto sociale, il mio è un film sui Paesi ricchi che devono confrontarsi con la povertà del resto del mondo» .Ma è anche una riflessione sull’autismo cui siamo ridotti dalla tecnologia. Anne e il compagno Lawrence (Toby Jones) vivono una relazione a distanza al cellulare; Thomas e la sua amante si lasciano andare a fantasie erotiche su Facebook; Ève interviene sulla madre riversa sul letto solo dopo averla filmata. Una specie di disconnessione dalla realtà: «Oggi la comunicazione è più complicata a livello individuale rispetto al passato. In un bar si trovano coppie di persone, sedute le une davanti alle altre, che digitano sul proprio telefonino senza parlarsi. Negli ultimi vent’anni la nostra esistenza è cambiata come non è mai accaduto prima nella storia dell’umanità. È impossibile autoescludersi dal progresso tecnologico. Anch’io ho un telefonino che uso per ricordarmi gli incontri che ho programmato, senza cui non potrei lavorare. È un archivio per la memoria che mi sta lasciando. So cosa vuol dire comunicare in Facebook, cos’è Snapchat, anche se non ho un mio profilo privato». Happy End è un titolo ironico per una realtà amara in cui arriva l’eco del resto del mondo: le agitazioni sindacali e le ingiustizie sociali; in particolare, quella che il rampollo Pierre Laurent alimenta dimostrando di non avere alcuna compassione per un operaio gravemente infortunatosi in azienda. «Sono un membro di questa società e il cinema è il mio modo di commentare le problematiche e di rispondere alle cose che vedo accadere. È inevitabile che i miei film riflettano il mio commento sulla società. Non penso che un libro o un film possano provocare cambiamenti epocali, ma se non ci credessi del tutto farei altro. Non sono ottimista, ma realista. La mia happy end è morire senza dolore morale e fisico» e ride.
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