Dal 7 giugno alla Fondazione Prada “Carne Y Arena di Iñárritu: l’intervista al regista

Il premio Oscar spiega
la sua installazione
alla Fondazione Prada:
«Non è cinema.
Uso il virtuale
per capire la realtà»

Da soli, senza sapere cosa accadrà. Così si inizia il percorso di Carne Y Arena , l’installazione di realtà virtuale di Alejandro Iñárritu con la collaborazione del tre volte premio Oscar Emmanuel Lubezki, che dal 7 giugno fino al 15 gennaio sarà alla Fondazione Prada di Milano. Si passa accanto a un pezzo di muro (vero) che divide gli Stati Uniti dal Messico e ci si toglie le scarpe visualizzando accanto ai propri piedi nudi ciabatte, sneakers, zoccoli, ballerine, impallidite dal sole e sfondate dalle camminate. Sono quelle originali di chi ha tentato di entrare nell’Eldorado americano e, alla meglio, ha perso un calzare. «Abiti di bambini, spazzolini da denti, giocattoli – spiega il premio Oscar Messicano – sono le ceneri delle 16mila persone che sono morte cercando di attraversare il confine».
A quel punto, scalzi, si entra in uno “spazio multi-narrativo” in cui per sei minuti si diventa un migrante centroamericano in uno scenario creato da Iñárritu sulla base di molteplici interviste a reduci da quell’esperienza, fino a che il cuore (quello del titolo e della locandina) dello spettatore reagisce. Il Sole 24 Ore ha vissuto questa esperienza al festival del cinema di Cannes, dove l’installazione è stata proposta in anteprima nell’hangar di un piccolo aeroporto. E che: «non sarà esattamente quello che vedremo a Milano -, ha spiegato il regista – perché il museo è molto più intimo».
Iñárritu non è nuovo al tema dell’immigrazione che era già nelle sue corde in Babel (2006) e Biutiful (2011).


«Ma Carne Y Arena – puntualizza il regista – non ha niente a che fare con il cinema, è un altro animale, la cui grammatica deve essere inventata; qui vi è l’incredibile opportunità di superare il limite dell’inquadratura». Per Iñárritu è piuttosto una questione filosofica: «Un modo di esplorare la condizione umana attraverso la tecnologia. Questa tragedia è stata politicizzata, rapita e capitalizzata dalla destra e dalla sinistra. Le vittime non hanno partito e solo “vivendo” la loro situazione abbiamo l’opportunità di capire perché sono venuti, cosa cercano, perché scappano. Siamo così desensibilizzati dalla quantità di informazioni, anche visive, da essere arrivati al paradosso di doverci avvicinare al loro vissuto passando per la realtà virtuale per comprendere la loro esperienza fisica».
Molto simile a quella degli sbarchi in Europa: «I nostri deserti sono il vostro mare: la gente si dissolve nell’acqua o nella sabbia, ma è ugualmente invisibile. Sono stato l’anno scorso a Catania e ho assistito all’arrivo di due barconi. Ho visto la nave che due anni fa trasportava un carico di 720 persone, per la maggior parte donne e bambini. Ho proposto di portarla a Milano, ma non ci sono ancora riuscito. Ho intervistato molto immigrati lì: una ragazza eritrea, che era stata ridotta a una schiava del sesso, molte famiglie siriane, egiziane, irachene, le cui storie sono uguali a quelle dei migranti centroamericani e messicani. Una delle peggiori frontiere è quella tra Guatemala e Messico: chi non rimane vittima delle barbarie che arrivano perfino alla decapitazione è un sopravvissuto, un eroe. Tutti scappano da una guerra deflagrata o silenziosa e corrono lo stesso rischio. Solo una situazione di estrema emergenza può spingere a mettere te e i tuoi figli nella condizione di morire. A Catania ero con una delle mie figlie e abbiamo visto cadere esausti a terra un bambino di sei anni, che stringeva un pallone in mano, e uno che potrebbe aver avuto tredici anni: scene da guerra mondiale. Sono rimasto scioccato e commosso dal rispetto e dalla cura con cui le autorità italiane trattavano i nuovi arrivati. In Messico va molto peggio. Non dico che gli agenti siano persone cattive, sono costretti a comportarsi duramente per proteggere il confine dal terrorismo. Quando il terrorismo è equiparato all’immigrazione c’è qualche cosa che non va nel sistema».

Il cinema da anni cerca di registrare questo fenomeno: recentemente Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi ha vinto il festival di Berlino ed è stato candidato all’Oscar come miglior documentario straniero. «Ho visto il film di Rosi e l’ho trovato affascinante, molto completo e umano. Gli immigrati sono un’opportunità, sono l’elemento sovversivo della società, perché mettono in luce le fratture del capitalismo che sta diventando un killer in grande scala» .
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