Berlinale ’67. L’Orso è cattivissimo: umorismo nero, risate e impegno politico. Il festival comincia in grande forma con «On body and soul», «T2» e «Félicité»

Bentornata Berlinale. Dopo anni di inaugurazioni un po’ annacquate, con gusci magnificenti ma vuoti, il festival veste di nuovo i suoi panni: firme senza il megafono dello showbiz, capaci di dar voce a formule e quotidianità diverse, mondi negletti, umiliati e offesi. Ildikó Enyedi, regista ungherese 62enne, vincitrice della camera d’or a Cannes nel 1989 con My 20th Century, ha girato un film che non rispecchia per nulla la sua apparenza mite e bonaria. On Body and soul è nero, spiazzante, politically uncorrect e ha più di Buñuel che del cinema problematico dell’Est cui siamo abituati.
On body and soul racconta la storia d’amore tra Endre (Morcsányi Géza) e Mária (Alexandra Borbély), direttore finanziario e ispettrice di un macello bovino. Lui ha un braccio inservibile, un matrimonio e varie relazioni fallite alle spalle, detesta il suo lavoro. Lei è come se non fosse mai stata tolta dal cellophane: una bambina nel corpo di un’adulta, aliena da qualsiasi socialità.

Inizia quasi come film di denuncia delle crudeltà contro gli animali, per poi rivelare tutt’un tratto la sua cifra corrosiva. Grazie alla psicologa ingaggiata per scoprire il colpevole di un furto di viagra per bovini, i due capiscono di sognare durante la notte la stessa scena: due cervi, un maschio e una femmina, che vagano in una foresta coperta di neve. Endre e Mária si sfiorano con approcci nonsense, mentre il resto del mondo sembra pervaso da una sensualità vaga e consumistica. Enyedi ricorda la nervatura paradossale di Mareen Ade in Vi presento Toni Erdmann, (il 2 marzo nelle sale) e la causticità necrofila di Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza di Roy Andersson, Leone d’oro a Venezia nel 2014. Ugualmente cattivo e divertente T2 Trainspotting (Fuori concorso, nei cinema il 23 febbraio), sequel che non rispetta la tradizione di essere un minus rispetto all’originale. Tornano gli spiantati eroinomani di Edimburgo, con le rughe, stempiati e ingrigiti, più macilenti, sessualmente non sempre prestanti, ma sempre esageratamente balordi e violenti da strappare risate. Il premio Oscar Danny Boyle a volte cade nel manierismo di se stesso e nel finale mette un po’ troppa bonomia, ma tra montaggi sincopati, f ound footage simulato, riprese e musiche allucinogene riesce a far schizzare per due ore lo spettatore sulla navicella spaziale del cinema-cinema.
La stessa astrazione che prova Félicité (Véro Tshanda Beva) quando canta nei bar di Kinshasa nell’omonimo film del franco senegalese Alain Gomis. La cantante prova quasi uno svenimento dalla vita, amarissima, in cui ogni giorno è vittima di qualche raggiro: dall’amante che la tradisce, ai debitori che non pagano quando deve salvare la gamba infortunata del figlio. La sua foga di madre la espone a ogni umiliazione e il realismo al film non manca, senza mai cadere nella retorica (anche se il tutto andrebbe sforbiciato di una mezz’ora) e senza mai rinunciare a un pizzico di magismo: quando Félicité si immerge in un lago sembra Kirikù nel regno della strega Karabà di Michel Ocelot (1998).

Di questa verità non partecipa The dinner di Oren Moverman: non bastano la chioma candida di Richard Gere, la prossimità obamiana nel fisico e negli ideali di Steve Cogan, l’abilità di Laura Linney e Rebecca Hall a salvare il potpourri di generi che questa pellicola tiene disastrosamente insieme. Si parte con una presa per i fondelli dell’universo culinario per passare alla critica della società americana e della sua politica, alla fotografia di un Paese malato con una psicopatologia diffusa. A fare da sfondo due famiglie i cui rispettivi figli hanno dato fuoco a una barbona, trama che somiglia molto a I nostri ragazzi (2014) di Ivano De Matteo.
Meglio allora il garbato e ben recitato Final Portrait (Fuori Concorso) di Stanley Tucci sugli ultimi ritratti del genio capriccioso di Alberto Giacometti con un eccellente Geoffrey Rush nei panni dell’artista. Non è stato purtroppo abile come Tucci Étienne Comar con Django sulla persecuzione dei nazisti nei confronti del musicista gitano Reinhardt di fronte al suo rifiuto di “arianizzare” il jazz. Piuttosto enfatico e televisivo, ma importate per ricordare il progrom di cui furono vittime i rom durante la seconda guerra mondiale. Infine, poiché Berlino non viene mai meno all’impegno civile, interessante la proiezione di The Trial: The state of Russia vs Oleg Sentsov di Askold Kurov, racconto del calvario processuale del regista ucraino, incriminato da Putin come terrorista. Il bello del documentario, di impianto tradizionalissimo e a volte maldestramente artigianale, sta nell’intimità familiare del personaggio e nella genuina adorazione del suo coté. Impressionante la perorazione di Aleksandr Sokurov per Sentsov davanti a un irremovibile Putin.
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