Alla Berlinale ’67 “T2”, il sequel di “Trainspotting”, gli squinternati di Edimburgo sono invecchiati ma sono ancora splatter, scorretti e divertenti

Arriva “T2”, il sequel di “Trainspotting”, gli squinternati di Edimburgo sono invecchiati ma sono ancora splatter, scorretti e divertenti

Splatter, irriverente, politicamente scorrettissimo, a tratti così violento e selvaggio da far girar la testa allo spettatore, “T2 Trainspotting” è un sequel che per fortuna non rispetta la tradizione di essere un minus rispetto all’originale. Danny Boyle dietro la macchina da presa ha raffinato oltremodo le capacità che aveva dimostrato nel primo capitolo, firmato nel 1996, tornando alla grande assieme ai quattro balordi eroinomani che aveva lasciato negli anni Novanta a Edimburgo. La prima scena è riservata a Mark Renton (Ewan McGregor) in corsa su un tapis roulant. I capelli lunghi lo distanziano dal ragazzino rasato, inseguito dai poliziotti per aver commesso un taccheggio assieme a Spud (Ewen Bremner), incipit di “Transpotting”.


Mentre fa jogging in palestra una serie di immagini dell’infanzia lo assalgono e cade sbattendo nella consueta ferocia traispottesca, inanimato, contro un angolo nell’indifferenza altrui. Boyle lo segue (anche questa sceneggiatura è tratta da un romanzo di Irvine Welsh, “Porno”) con i capelli corti tornato in famiglia dove trova il padre, solo e invecchiato. Sono passati vent’anni e la distanza con il genitore è sempre quella lunare che lo aveva persuaso a scappare rubando il bottino di una partita di eroina e a rifarsi una vita altrove. Mark decide di far visita a Spud che trova in fin di vita nel suo appartamento spoglio con un sacchetto in testa in attesa di morire dopo un’overdose. Spud sogna di precipitare dal tetto del condominio di periferia, dove l’ascensore è solo il buco nella tromba delle scale, e d’un tratto si trova tra le braccia di Mark. La prima reazione fisica è quella di vomitare, la seconda è quella di insultare malamente l’amico.

La suggestione continua quando Mark raggiunge il locale abbandonato da dio e dagli uomini dove Simon “Sick Boy” (Jonny Lee Miller) ha messo in piedi un’attività professionale da ricattatore grazie alla prostituzione della fidanzata Veronika (Anjela Nedyalkova). Mark vorrebbe restituire la cifra sottratta vent’anni prima alla gang e Sick Boy lo ricambia spaccandogli la stecca da biliardo addosso. Nel frattempo Frank Begbie (Robert Carlyle) è riuscito a evadere di prigione e la compagnia si può riunire. Sono tutti invecchiati: hanno le rughe, sono un po’ stempiati, il fisico macilento, i capelli sale e pepe, il sesso a volte fa cilecca, ma la cattiveria è sempre la stessa come le note surreali (l’attività letteraria di Spud), che hanno reso “Trainspotting” la pellicola capostipite (e inimitabile) di un certo tipo di cinema. Danny Boyle nel frattempo ha ampliato i suoi atout, capaci di far schizzare per due lo spettatore su una navicella spaziale, come aveva già fatto con la danza della rivincita di “The Millionaire” (2008) , premio Oscar 2009 o la prigionia di 5 giorni di un climber tra le rocce di un canyon in “127 ore” (2010). Montaggi sincopati, found footage simulato, riprese dall’alto che straniano spettatore e attore, uso della musica come un viaggio allucinogeno, vertigini e buchi nel vuoto. Poco importa se Boyle alla volte cade nel manierismo di se stesso, riesce ancora a far ridere davanti a un fiotto di vomito, una testata, un ferro da calza infilzato nell’addome. Tutto nella balordaggine è permesso soprattutto il kitsch, anche se nel finale lo si sarebbe voluto più cattivo.